VILLA IRMA

Luglio 1969, sbarco degli americani sulla Luna, missione Apollo 11. Telecronaca italiana condotta da un comprensibilmente emozionato Tito Stagno.

Cercavo di seguire con attenzione l’evento perché sentivo che stavo vivendo un momento che sarebbe passato alla storia, ma ero distratta. Dalle finestre aperte sul giardino di Villa Irma entrava il profumo dei pini e lo stridio delle rondini nel cielo, e sapevo che il mare era lì vicino. Milano Marittima, Villa Irma aveva le persiane di legno dipinte di  rosso, con un cuore intagliato nel mezzo, forse per nostalgia dei proprietari per le valli svizzere dalle quali provenivano. Villa Irma stava alla colonia estiva come la Maserati biturbo stava alla seicento: piccoli gruppi suddivisi in base all’età venivano affidati ad una istitutrice o istitutore (di solito insegnanti), che vigilavano con discrezione e talvolta si rendevano complici di piccoli strappi alle regole.
Passavamo le giornate in spiaggia, bagni Marinella.
Al bar i ragazzi più grandi (sedicenni e diciassettenni)  passavano ore intere appollaiati sul juke box a darsi arie da grandi, cullata dalle note dei Bee Gees io li osservavo con invidia reverenziale e avrei voluto spingere il tempo in avanti per raggiungerli, ben sapendo che mi sarebbero comunque sfuggiti.
Ma l’autentica rottura con le consuetudini familiari di sempre era la passeggiata serale, con fermata obbligata alla sala giochi Il Dollaro, dove anch’io potevo fingere di essere grande, con l’anima che oscillava leggera sull’onda di Pata Pata e la signorina Maria che, paziente e comprensiva, stazionava con un libro in mano sulla panchina di fronte all’ingresso.  Scelta di compromesso ma strategica, perché se non altro da lì poteva controllare che nessuno dei rampolli ambosessi in piena tempesta ormonale a lei affidati potesse prendere la via della spiaggia, avvinghiato/a a qualche intraprendente esemplare della fauna  locale.
I racconti di quel soggiorno estivo, notevolmente e liberamente arricchiti con dettagli di pura fantasia, erano sufficienti a stemperare il peso di  un anno di quotidiane mortificazioni che solo la vita in un quartiere periferico di Milano negli anni 60 e 70,  con l’aggravante di una famiglia iperprotettiva, poteva scaraventarti addosso.
Qualche anno fa,  di ritorno da un viaggio in Umbria, seguii l’impulso irrefrenabile di passare da Milano Marittima, alla ricerca di Villa Irma e di un tempo perduto.
Ricordavo l’indirizzo, e nonostante le inevitabili modifiche alla viabilità trovai facilmente Villa Irma. Notai subito che la casa aveva perduto quell’aspetto familiare che rammentavo, erano scomparse le persiane rosse con il cuore intagliato, sostituite da più sobrie persiane ad anta piena marroni, e nel grande guardino, dove ricordavo alberi frondosi intorno a un tavolo da ping pong, ora c’era un campo da tennis in terra rossa. Sull’altro lato del giardino, al posto del roseto, dei dondoli e dei salottini in plastica bianca, una piscina degna di un resort.
Fui colta all’improvviso da una malinconia insopportabile, nel momento in cui percepii la siderale distanza che mi separava da quei momenti che ricordavo con tanta nitidezza da sentirne persino l’odore. Di quei giorni lontani rimpiangevo l’inconsapevole sicurezza di chi ha davanti a sé un sacco di tempo, allo stesso modo in cui ora ogni giornata era accompagnata dalla lucida considerazione che, indubbiamente, di tempo a disposizione non ce n’era più così tanto e alcune aspettative si erano ormai tramutate definitivamente  in illusioni disattese.
Distolsi lo sguardo dal passato e da Villa Irma , avvolsi intorno alle spalle il mio magone e dissi a mio marito “ok, adesso che l’ho vista possiamo dirigerci verso casa”.