Tra mio papà che era un ballerino di boogie acrobatico e mia mamma che era inchiodata al pavimento, tra mio papà che nuotava, si tuffava, giocava a basket, a tennis e a ping pong, correva in bicicletta, il tutto con discreti risultati, e si dava al karate diventando con gli anni Maestro con un numero impegnativo di dan, e mia mamma che è sempre stata resistente come un mulo a molte fatiche ma negata per qualsiasi sport, io ho preso da mia mamma.
Dal papà ho però ereditato la veemenza verbale e un’energia frenetica che ho sempre dovuto scaricare con una qualunque attività purché fisicamente impegnativa, senza alcuna ambizione agonistica né tanto meno di pratica di disciplina di gruppo (anni fa in una palestra mi pregarono di non frequentare più il corso di aerobica coreografata perché confondevo le idee agli altri, e fu per me molto imbarazzante).
Piccolo particolare non irrilevante, sono affetta da una grave forma di miopia: ho incominciato a portare gli occhiali in prima elementare, poi sono passata alle lenti a contatto e la qualità della mia vita è decisamente migliorata, tuttavia nel buio delle discoteche negli anni ’80 mi capitò di prendere delle cantonate memorabili.
Fu nel ’93 che mi avvicinai ai cavalli per una serie di circostanze fortuite, avevo da poco lasciato Milano per la provincia di Novara ed era l’epoca in cui nella zona del Parco del Ticino, tra Piemonte e Lombardia, vi fu un’esplosione di maneggi che utilizzavano animali importati dal Sudamerica per le passeggiate. Cominciai così, senza alcuna nozione tecnica e con molta incoscienza, ma i cavalli erano un sogno che albergava nella mia anima fin dall’infanzia: via da Milano e dal grigiore asfittico di Quarto Oggiaro, le vacanze estive nella campagna novarese scorrevano tra frinir di cicale, amichetti di paese e pomeriggi a cavalcioni della ramificazione di un vecchio albero, immaginando che fosse il mio possente destriero.
Ho sempre raccattato animali abbandonati e malaticci, spinta dalla pietà e dalla responsabilità della quale mi sentivo investita una volta che li avevo incontrati. L’ho fatto molte volte anche con le persone, e ancora non mi spiego del tutto il motivo di questa solidale ed ostinata predilezione per i perdenti. Con gli equini non andò diversamente: il primo cavallo che acquistai era un argentino pezzato bellissimo, con gli occhi azzurri e una lunga criniera nera ondulata, e con un enfisema polmonare ad uno stadio avanzato. Ne ero consapevole, ma immaginando le tribolazioni che doveva aver patito volli regalargli un periodo di cure e di attenzioni amorevoli che naturalmente non poterono modificare la sua sorte, e un paio d’anni dopo dovetti rassegnarmi a farlo abbattere perché aveva crisi respiratorie dolorose e sempre più frequenti.
Ma ormai la passione per i cavalli si era solidamente radicata, e fu allora che Chisco comparve al mio orizzonte. Piccolo e muscoloso come i quarter che si usavano una volta, prima che si decidesse che avevano masse muscolari troppo sviluppate, il mantello color miele, coda e criniera nere e una piccola macchia bianca sulla fronte, focature nere sulle zampe e le balzane candide ai posteriori, e l’aria da cartone animato. Per me fu amore a prima vista, per lui non saprei. Il giorno dopo che ero andata a vederlo lo comprai, e gli promisi che sarebbe stato per sempre.
Aveva solo tre anni ed era appena domato, lo portai nel centro di addestramento e scuola western dove avevo incominciato a prendere lezioni. La passione e la caparbietà si sostituirono alle doti innate che non possedevo, e riuscii finalmente in una disciplina sportiva, ottenendo persino qualche discreto risultato in gara.
Mio marito, che ha sempre giudicato i cavalli affascinanti ma troppo grossi e potenzialmente pericolosi non ha mai interferito con tutto ciò, comprendendo perfettamente nonostante la sua scarsissima confidenza con gli animali in genere: la sua pazienza e la sua immancabile solidarietà valgono per me più di qualsiasi dichiarazione d’amore.
Ho sempre avuto il passo leggermente titubante dei miopi e talvolta mi muovo in maniera disarticolata, a piccoli scatti bruschi: ma ecco che salendo in sella trovo l’armonia e la fluidità dei gesti, e la fierezza dello sguardo che punta lontano e chi se ne frega se non ci arriva. Seguo la cadenza di un corpo che non è il mio ma ne diventa una sorta di prolungamento, che mi consente di fare cose che mai potrei fare da sola. Ed è musica, è un ritmo dolce e adrenalinico al contempo: in sella ho trovato il mio swing.
Io e Chisco siamo cresciuti insieme, l’ho portato con me nel nostro ultimo trasloco, quello definitivo (ammesso che ci possa essere qualcosa di veramente definitivo, a parte la morte), e la prima volta che ha visto questo paesaggio collinare aperto e morbido si è guardato attorno a lungo, con un’espressione assorta nei miti occhi color nocciola , e pareva soddisfatto.
Negli ultimi anni ho avuto molto tempo da dedicargli e l’ho fatto con avidità, nella consapevolezza che stavamo entrambi invecchiando, lui più velocemente di me. Malgrado ciò, non ero pronta.
A 23 anni (una bella età, d’accordo, ma sano e robusto com’era ci aspettavamo tutti che campasse molto di più, magari un po’ acciaccato) se lo è portato via un’infezione renale, dapprima silente ed infine letale. Sono ancora qui che mi chiedo se avrei potuto salvarlo, se non avessi ascritto la sua stanchezza delle ultime settimane alla vecchiaia, mentre invece era la malattia, ma è un atteggiamento irrazionale ed autolesionista. E inutile.
Il 28 di aprile era una giornata fresca e serena. Chisco da tre giorni non mangiava praticamente nulla e non reagiva alle cure. Non aveva nemmeno più la forza di chiamarmi, come era solito fare quando sentiva arrivare la mia macchina in maneggio (sì, la riconosceva).
Ciononostante, ha voluto uscire dal box. Siamo andati nei prati tra i paddock, si è guardato attorno, ha nitrito più volte guardando gli altri cavalli. Si è grattato la testa contro le mie gambe, come amava fare, mi ha pizzicato dolcemente la mano con le labbra, cercava il contatto fisico al quale lo avevo abituato.
E’ andato in arresto cardiaco all’ombra del grande ciliegio, e non dimenticherò mai la paura che ho visto nei suoi occhi nel momento in cui è crollato. Dopo qualche secondo era tutto finito.
Ho sempre saputo che senza di lui niente sarebbe mai stato più come prima, ed è così. Ho reagito con apparente compostezza, ma qualcosa nel profondo ha ceduto, so che è terminata una parte spensierata della mia vita, è finita l’illusione infantile di essere al riparo. La sua assenza è irrimediabile, e non voglio un altro cavallo: è stato un amore perfetto durato vent’anni, nessun cavallo potrebbe reggere il confronto.
Tuttavia, la passione per i cavalli persiste: è come il canto delle sirene di Ulisse, ma non porta perdizione bensì conforto. E allora sono risalita in sella e ho scoperto di saper ascoltare la musica di altri cavalli cogliendone le differenze, e ritrovando ogni volta il mio swing: ed è questo il dono più prezioso di Chisco, che conserverò gelosamente insieme al suo ricordo. Per sempre.
Un giorno ripenserò a tutto questo guardando dalla finestra un mondo che forse sarà divenuto estraneo: chiuderò gli occhi e sarà dolce ritrovare ancora una volta il mio swing.



Grazie, Sonia, di aver voluto fare lo sforzo che sicuramente è stato necessario per guardare negli occhi il tuo dolore e condividerlo qui. Lo si legge e ti si riconosce, si sente che è vero, ci si può entrare dentro e provare a tastarne la sagoma. Leggendo, viene automatico correre col pensiero ad una perdita, per avvicinarsi a te e comprendere ciò che arriva, ciò che trasmetti.
Ma devo ringraziarti anche di un’altra cosa: aver condiviso tacitamente quanto sia bello che la vita possa regalare momenti carichi ed intensi, ancor di più quando quei momenti durano 20 anni.
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grazie, Andrea. Con te ne avevo parlato quando ancora non riuscivo a guardarlo. Ma non conosco altro modo di superare il dolore se non quello di contemplarlo senza risparmiarsi nulla, occorre mettere ordine, separando la sofferenza che pian piano si ritirerà dai ricordi, da riporre e custodire con cura. Oggi scopro il dono di Chisco (ripensando a lui, mi viene da definirlo un “portatore di gioia”) ed è un segno di continuità, in un certo senso. Alla fine, abbiamo sempre bisogno di eternità, e qualche volta ci dimentichiamo che si costruisce con l’attenzione e con la consapevolezza del presente…
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