LINEA ROSSA
Milano, stazione metropolitana di San Babila, linea 1, direzione Rho Fiera.
È il tardo pomeriggio del giorno dell’Epifania e non c’è tanta gente ad aspettare il treno.
La donna se ne sta seduta su una delle panche poste lungo la banchina, ha un giornale aperto sulle gambe ma non lo guarda da un bel po’; sembra osservare i treni che si avvicendano uno dopo l’altro, senza decidersi a salire. Eppure, non ha davvero l’aria di aspettare qualcuno.
Faccio fatica ad attribuirle un’età, non sono bravo in queste cose. Tuttavia, passandole davanti ho notato il volto ancora piacevole ma scarno e abbastanza segnato, acceso dallo sguardo chiaro e attento. I capelli sono bianchi, ha una chioma voluminosa e mossa; non è certo giovane ma mostra una leggerezza acerba nella postura e nei movimenti. Di tanto in tanto si alza di scatto, muove alcuni passi e la sua camminata è elastica e decisa, poi torna indietro con una giravolta agile e aggraziata, quindi si siede sulla stessa panchina, riponendo il giornale aperto sulle gambe. Anche l’abbigliamento suggerisce un’ingannevole giovinezza: indossa jeans infilati dentro massicci anfibi e un piumino che aderisce alla figura magra, una piccola borsa nera a tracolla. Liscia le pagine del giornale con le mani piccole e un poco grinzose, inforca un paio di occhiali e concentra la sua attenzione su un punto, probabilmente ha scovato un articolo che le interessa.
Passeggio anch’io avanti e indietro senza risolvermi a salire su un treno. La osservo con discrezione, anzi, la tengo d’occhio assecondando l’indefinibile impulso a prendermi cura di lei.
Sono un sacerdote che ha rinunciato alla fede molti anni orsono: facendo il missionario in Amazzonia e in altri luoghi più o meno remoti ma egualmente lacerati da guerre, regimi sanguinari e carestie, mi è capitato di incontrare persone che adoravano la Terra, il Sole o qualche divinità barbuta e inflessibile.
Ho avuto la mia rivelazione davanti a un fuoco, in una notte buia: la fede spegne il senso critico e offre risposte semplici a domande complicate. Ho ipotizzato che, per la maggior parte degli individui, la fede soddisfi una comprensibile esigenza di conforto e rassicurazione, mentre per altri rappresenti un efficace strumento di manipolazione e repressione.
Come conseguenza logica, ho dovuto accettare che dopo l’ultimo respiro non vi sarà più nulla. Perciò, è più che mai importante vivere praticando l’onestà e la giustizia, perseguendo la conoscenza e la comprensione, senza sprecare nemmeno un istante di un tempo la cui durata sarà determinata dal caso e dalle circostanze.
“Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Balle: la via è un percorso tortuoso che nessuna mappa sa indicare, la Verità qualche volta è un concetto relativo e, comunque, ognuno deve cercarla continuamente, con coraggio e rigore e la vita, infine, ha un andamento che dipende dal caso e dalle scelte personali, in proporzioni variabili.
Non occorre credere in alcun Padre onnipotente per distinguere il bene dal male, il giusto dall‘ingiusto, e comportarsi di conseguenza.
Quando mi sono ammalato seriamente di malaria sono dovuto rientrare in Italia e, dopo aver deciso di fare a meno della fede, ho abbandonato anche la tonaca. Dunque dovrei dire che ero un sacerdote, ma sono stato prete per buona parte della mia vita e non so fare altro che prendermi cura del prossimo, mosso da un’amorevole curiosità e dalla compassione per ogni forma di fragilità umana.
Ora guardo questa sconosciuta e sono inspiegabilmente impressionato dal suo comportamento che non suggerisce alcuna indecisione, ma piuttosto lo sconcerto di chi ha trovato le risposte a domande che cercava di aggirare da tempo. Allora resto qui con lei, la quale nemmeno mi vede, sotto questa luce crudele e bugiarda, mentre fuori starà calando la precoce sera invernale.
Cadorna Cairoli Cordusio Duomo San Babila Palestro Porta Venezia Lima Loreto Pasteur Rovereto Turro Gorla.
Per molti anni la mia mappa di Milano ha seguito il tracciato disegnato da questo tratto della linea rossa della metropolitana. Casa, scuola, lavoro, affetti erano collocati lungo questa direttrice, fatte salve le occasionali escursioni in altri distretti della città e le vacanze altrove, naturalmente.
Un orizzonte piuttosto limitato che oggi si è ulteriormente ristretto perché, avvicinandosi la vecchiaia, lo sguardo s’impigrisce e perde l’impulso a puntare lontano. Chissà se è successo anche a te, o se hai conservato la vecchia smania di andare, andare, andare.
Oggi sono uscita per la solita camminata salutare mentre mio marito, accartocciato in un angolo del divano, cedeva al torpore pomeridiano davanti al televisore, sintonizzato su un canale sportivo a caso.
Da quando i nostri due figli si sono sposati e non devo più preoccuparmi di lavare, stirare e cucinare anche per loro, mi sono finalmente riappropriata del mio tempo e ho preso l’abitudine di passeggiare nei dintorni di casa. Qualche volta mi accompagna mio marito ma oggi si è defilato, lamentandosi che fa freddo. Certo che fa freddo, siamo in gennaio.
Da Corso Vercelli, dove abitiamo, sono arrivata fino in Piazza San Babila compiendo diverse digressioni e mescolandomi a gruppi di turisti volenterosi e infreddoliti.
Dopo tutto questo girovagare ero stanca e quindi ho deciso di prendere la metro fino a Cadorna per rincasare, ma prima avevo voglia di sedermi a lasciar passare ancora un po’ di tempo.
Ho già visto in giro questo giornaletto di cronaca milanese e non l’ho mai degnato di uno sguardo; vorrei proprio sapere cosa mi abbia indotta a farlo oggi. L’articolo ha richiamato la mia attenzione per via della foto: un’istantanea brutta e sgranata che ritrae un tizio che un poco ti assomiglia; riferisce di un incidente stradale.
Sebbene non potrei affermare con certezza di riconoscerti da quella foto, le generalità trascritte nel testo ti identificano senza ombra di dubbio. Che ci facevi in bicicletta alle cinque di un mattino d’inverno, su viale Monza e al di fuori della pista ciclabile? Ti ha investito un medico che stava recandosi a prendere servizio al Fatebenefratelli e sostiene che tu sia caduto o ti sia buttato sotto l’auto, circostanza confermata dal filmato di una telecamera posta davanti all’ingresso di un edificio residenziale. Ciononostante, lo sventurato medico, il quale ti ha immediatamente portato al Pronto Soccorso, dove sei deceduto poco dopo per emorragia cerebrale, è ancora indagato per omicidio stradale. Però, il dettaglio che mi ha colpita come un pugno nello stomaco togliendomi il respiro per qualche momento, è che “trascorsi sei giorni dall’incidente, nessuno ha reclamato la salma”.
La mia mente si è inceppata sul senso orribile di un’espressione che trovo vagamente ridicola.
Mi sono inventata cento finali diversi della nostra storia ma ti ho anche immaginato, di volta in volta, tormentato dai rimpianti o felice, irrequieto o appagato, ma mai solo. Tu eri incapace di stare da solo e adesso vorrei sapere cosa ti ha condotto all’innegabile solitudine di uno che muore senza che nessuno si accorga della sua scomparsa.
Da diverso tempo mi piaceva pensarti sposato e con dei figli, con l’animo finalmente in pace, magari con qualche breve ricaduta nella nostalgia. Una sorte analoga alla mia, insomma: la più probabile, la più ragionevole.
E’ passato tanto di quel tempo dalla nostra storia; magari non te ne ricordi nemmeno. No, sono certa che non è così. Anzi, non era così, adesso non è più niente.
Penso che uno dei più gravi limiti della mente umana risieda nell’intuizione della complessità, senza riuscire a raffigurarsi il disegno generale. Ci lasciamo distrarre dai dettagli, ci soffermiamo su particolari certo rilevanti, ma non sappiamo vedere l’ordito nel quale sono inseriti. Fanno eccezione gli individui dotati di una mente particolarmente brillante, destinati a non essere presi sul serio dai più.
Tuttavia, qualche volta capita di essere folgorati da una rivelazione grazie alla quale tutto appare finalmente chiaro. E allora è un guaio perché, dopo questa visione, non è più possibile tornare indietro.
Lascerò passare anche questo treno. Qualcuno scende, qualcun altro sale. Il treno riparte e mentre l’immagine dei vagoni illuminati sfila in una rapida dissolvenza, ecco che appaiono in sovrapposizione gli ultimi decenni della mia vita. Si presentano come fotogrammi che scorrono in una sequenza accelerata eppure chiarissima, consentendo la rivelazione della trama nella sua interezza.
Durante tutto questo tempo ho fatto molte cose, seguitando nel frattempo a covare l’irragionevole speranza che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo. Avremmo parlato accantonando la reticenza e l’imbarazzo, avremmo detto le cose che dovevano essere dette e ci saremmo concessi un abbraccio ripromettendoci di trovarci ogni tanto per un caffè senza sapere se lo avremmo fatto davvero.
Ora so che non succederà e dovrei sentirmi finalmente libera da questa sciocca illusione pesante come un macigno; invece, mi sento come un prigioniero che, liberato dopo una lunga detenzione, ha paura a uscire dalla sua cella e sa che patirà la mancanza del suo unico compagno di prigionia.
La donna abbandona repentinamente la panchina, ripiega il giornale e lo getta dentro un contenitore per rifiuti. Sta arrivando un treno e stavolta sembra decisa a salirvi ma, poichè non sono certo di interpretare correttamente la sua determinazione, mi avvicino e la affianco. Adesso riesco a percepire la sua malinconia quieta, posso sentirne l’odore mescolato alla fragranza di gelsomino che emana la sua persona. Mi sono già imbattuto in quest’aura impalpabile ma tenace e so che è difficile dissiparla. Con il tempo, si impara a sopportarla e perfino a ignorarla.
Provo pena per questa donna spezzata e vorrei conoscere la sua storia, ma temo che non potrei fare o dire nulla per confortarla, dovrà imparare a farlo da sola.
Mio marito si starà domandando che fine ho fatto, guardando di tanto in tanto Corso Vercelli dalla finestra del soggiorno; alle volte si preoccupa per così poco, lo ha sempre fatto. C’è un film che mi piacerebbe vedere, domani potremmo andare allo spettacolo pomeridiano, se ne avrà voglia.
Sta arrivando un treno e stavolta lo prenderò. È ora che io torni a casa, si è fatto davvero tardi. Tardi per un mucchio di cose.
So many years since I’ve seen your face
Bit here in my heart, there’s an empy space
Where you used to be
So long, it was so long ago,
But I’ve still got the blues for you.
(“Still got the blues”, Gary Moore)
Sono talmente tanti anni che non vedo il tuo viso
Qui, nel mio cuore, c’è un po’ di spazio vuoto
Dove una volta c’eri tu
Così tanto tempo, è stato così tanto tempo fa
Ma sono ancora triste per te.