LA SCOMPARSA DEL SIGNOR OSVALDO


…sera, Osvaldo”

“…sera, Nanni”

“Guardi l’Inter, dopo cena?

“Puoi scommetterci, Nanni”

“…dai, che gliele suoniamo al Real  e andiamo dritti in finale UEFA a prenderci la coppa”.

Clang. L’orologio della timbratura marcò le 18,02 di mercoledì, 16 aprile 1986.

Il signor Osvaldo sorrise al collega e si diresse insieme ad altri operai verso l’uscita della fabbrichetta di scatole di cartone dove svolgeva mansioni di contabile, a Cinisello Balsamo. Gettò un’occhiata circolare priva di rammarico al microcosmo che non avrebbe più rivisto, dopo avervi trascorso oltre vent’anni.

Purtroppo, quella sera la partita se la sarebbe persa e gli seccava molto, ma ormai tutto era stato pianificato. Più o meno all’ora in cui in televisione sarebbe iniziata la cronaca della semifinale di Coppa UEFA Real Madrid–Inter,  un aereo lo avrebbe condotto lontano da Milano: si sarebbe  eclissato definitivamente e con la medesima discrezione con la quale aveva vissuto sino a quel giorno. D’altronde, mica poteva rimandare la fuga (lui preferiva definirla “dissolvenza”) programmata da mesi per guardar giocare l’Inter. Anche se…

Era l’Inter di Zenga, Bergomi, Altobelli, Baresi, Collovati, Tardelli e poi lui, Karl Heinz Rummenigge. Quest’ultimo era un atleta di indiscutibile talento ringhioso e potente, tanto che il panettiere vicino a casa aveva battezzato così il suo dobermann, giusto perché fosse chiara la fede calcistica; ma poi, quando il cane gli scappava via e doveva chiamarlo, quello aveva già girato l’angolo prima che finisse di pronunciarne il nome.

In ogni caso, fu il Real a rifilare cinque sberle all’Inter (contro una soltanto) e il signor Osvaldo lo apprese solo quando si trovava talmente lontano da Milano da percepire come remota anche quella delusione.

Dunque, quel mercoledì il signor Osvaldo Bestetti, quarantasei anni appena compiuti, uscito dal lavoro salì sull’autobus arrivando a Sesto San Giovanni; dove prese la metro scendendo in piazzale Loreto per raggiungere a piedi l’appartamento che divideva con la moglie, in Via Andrea Costa. “Divideva” è da intendersi in senso letterale: infatti, ognuno dei due coniugi occupava uno spazio privato ed esclusivo difficilmente violabile, poi c’erano le aree comuni, sostanzialmente sala da pranzo e salone. La rigorosa spartizione del territorio era stata stabilita dalla consorte la quale, appena dopo il matrimonio, aveva tenuto a chiarire che, essendo sua la casa, avrebbe provveduto a tutte le spese, comprese quelle per il comune sostentamento aggiungendo, con umiliante magnanimità, che era libero di usare il suo stipendio per le sue necessità o per costituirsi una piccola riserva, non avendo altre spese di cui preoccuparsi. Con questa premessa, la sua condizione di ospite era stata definitivamente sancita.

 Poiché la moglie, dopo la chiusura del suo negozio, avrebbe raggiunto alcune amiche per cenare insieme e poi andare a teatro, il signor Osvaldo ebbe l’agio di riempire una valigia, prendere l’auto dalla rimessa e dirigersi verso l’aeroporto di Linate. Lasciò la vettura in un grande parcheggio e si diresse all’imbarco del volo Air France che, dopo uno scalo a Parigi, lo avrebbe condotto a 14° 40’ a nord dell’equatore e a 61° ovest del meridiano di Greenwich: è esattamente lì che si trova Martinica, isola dell’arcipelago delle Piccole Antille francesi.

Da quel momento, il signor Osvaldo Bestetti cessò di esistere: dileguato, scomparso, svanito. L’uomo elegante e di bell’aspetto che fu accolto da una gentile hostess in business class rispondeva al nome di Renato Castelli, nato a Pavia il 14 febbraio 1940 e residente in un anonimo borgo rurale dell’astigiano.

Quando il velivolo prese quota, si rilassò contro lo schienale della comoda poltrona e si mise a ripensare con calma a tutto quanto.

Era nato per davvero nel ’40 ma nell’ultimo dei tre giorni della merla (volatile che nessuno ricordava di avere mai visto bianco) e a Milano, in fondo a via Gluck, vicino ai campi dove, in primavera, i pastori portavano le loro pecore a pascolare. Figlio di un ferroviere e di una casalinga, con una sorella più grande, quando terminò la quinta elementare il maestro raccomandò ai genitori di farlo studiare: era intelligente e imparava con facilità; in quegli anni di ricostruzione e ripresa economica un titolo di studio avrebbe consentito di accedere alle professioni meno usuranti e meglio remunerate.

Così, mentre la sorella maggiore apprendeva il mestiere di sarta e i genitori continuavano a tirare la cinghia, l’Osvaldo frequentò le medie e in seguito conseguì il diploma in ragioneria.

A ventidue anni, dopo molta pratica malpagata da un commercialista, era già impiegato presso la fabbrichetta di Cinisello e ampliava la sua esperienza sotto la guida vigile del contabile che avrebbe sostituito, essendo costui prossimo alla pensione.

Di indole riservata e gentile nei modi, Osvaldo Bestetti era un giovanotto di notevole bellezza che portava bene qualunque straccio indossasse: alto e snello, spalle larghe da nuotatore, benché conoscesse appena le acque infide dell’Idroscalo, il ciuffo di capelli castani ricadente sulla fronte ampia fino a sfiorare gli occhi del verde chiaro che mostrano certi gatti dal mantello tigrato. Nei tratti fini del volto c’era una delicatezza languida e dalla gestualità misurata traspariva un’elegante indolenza che suggeriva una latente mollezza del carattere.

Di questo dettaglio Carla Zambelli fu immediatamente consapevole, fin dalla prima volta in cui lo vide, ma preferì lasciarsi distogliere da tutto il resto. Prossima ai trentaquattro anni, non era una frequentatrice di sale da ballo; quel sabato sera di maggio si era lasciata convincere da una cugina più giovane che festeggiava il compleanno e si era ritrovata nella bolgia dantesca delle Rotonde di Garlasco, dove giravano già le prime zanzare. Nella compagnia c’era anche il bell’Osvaldo, il quale la salutò con garbata distrazione.

Di Carla Zambelli i conoscenti solevano dire che non era bella ma era un tipo, oppure era intelligente o interessante. Simpatica no, non lo diceva nessuno. In ogni caso, la premessa era sempre identica e inappellabile: non era bella. In effetti, non si poteva affermare che lo fosse: donna priva di curve perfino nei pensieri, sempre rigorosamente lineari, ma in compenso piena di spigoli, nell’aspetto e nel carattere. Il viso lungo, dominato dal naso aquilino, inalberava spesso un’espressione scontenta; aveva capelli folti e scuri mortificati da tagli severi e troppo corti che accrescevano l’aspetto androgino della fisionomia. Nessuno pareva accorgersi della sua determinazione; forse perché, a metà degli anni ‘60, non era una dote particolarmente apprezzata nelle donne.

Eppure, fu proprio quella a guidarla nella storia con il bell’Osvaldo e a condurla, infine, all’altare, quando si trovava a un passo dalla soglia anagrafica oltre la quale si trovava lo zitellaggio.

“Cosa ci fa qui quell’antipatica di tua cugina?

“Guarda, Mari, ogni tanto mi fa pena. È piena di soldi ma non sa divertirsi ed è sempre sola come un cane”.

“Sì, però intanto è tutta la sera che punta il bell’Osvaldo”

“Davvero? Ha poco da puntare, quello manco si accorge di una come lei. In ogni caso, l’Osvaldo non è uno che ama le chiacchiere e mia cugina neanche per lui rinuncerebbe alla sua preziosa illibatezza”

“…dai, vuoi dire che a trentaquattro anni…”

“No, non voglio dire, lo so per certo”.

Se quella sera l’Osvaldo non si stesse annoiando a morte e se non avesse casualmente colto la conversazione tra le due amiche, certamente avrebbe continuato a disinteressarsi di Carla.

Invece, s’incuriosì e quando lei prese a mostrare chiari segni d’insofferenza per la folla e per il baccano, premurosamente si offrì di accompagnarla a casa.

Carla era l’unica figlia di una coppia che possedeva diversi alloggi a Milano, tutti in zone di un certo pregio e affittati a caro prezzo. Gente ricca da generazioni, aveva saputo gestire con oculata lungimiranza le notevoli risorse, crucciandosi solamente di non poter vantare un’origine nobile. Per quanto tutti e due frugassero nel loro passato remoto, gli avi erano stati, rispettivamente, palazzinari e commercianti che con quelle attività si erano arricchiti. Erano anche proprietari di un magazzino all’ingrosso di articoli di profumeria e di un grande negozio al dettaglio in Corso Buenos Ayres. La figlia si era diplomata alla scuola magistrale tanto per avere un titolo di studio, ma a vent’anni si occupava già della gestione della profumeria insieme alla madre. Con il trascorrere degli anni, l’assenza di un fidanzato all’orizzonte per la famiglia divenne una faccenda imbarazzante.

“Possibile che non ne trovi uno che ti vada bene?” sbottavano a turno, di tanto in tanto. Come se non si accorgessero che fuori dalla porta non c’era la fila, lungi dal comprenderne i motivi, che non risiedevano nell’aspetto fisico della figlia, bensì nel carattere autoritario e ombroso che la rendeva  incapace di allegria e, forse, anche di affetto.

Normalmente, non era con la conversazione che il bell’Osvaldo mirava a fare colpo sulle ragazze che gli piacevano, ma comprese subito che con Carla avrebbe dovuto tentare un approccio diverso.

La donna gli disse che abitava in via Pattari, strada in cui l’Osvaldo pensava ci fossero solo studi legali, notarili o  di altro genere; invece, scoprì che la madre di Carla possedeva l’intero piano di un aristocratico palazzo, a pochi metri dall’omonima piazzetta.

Dato che non era affatto stupido e coltivava anche qualche interesse, durante il tragitto sulla sua Seicento di seconda mano parlò di film che aveva visto, di romanzi letti, di musica di qualche nuovo gruppo, di sale da ballo in voga a Milano in quel periodo. Purtroppo, Carla preferiva il teatro al cinema, leggeva solo saggi, ascoltava prevalentemente musica classica e non frequentava sale da ballo; quindi, si trattò più che altro di sostenere un monologo. Lei apprezzò lo sforzo e continuò a guardarlo parlare senza ascoltarlo davvero, perché non era quello che le interessava. Tuttavia, non cedette la prima sera per una questione di buona creanza e fu questo il motivo per il quale l’Osvaldo andò a trovarla in negozio una settimana dopo per invitarla a bere qualcosa dopo cena. Non era abituato a sentirsi dire di no e quella donna poco attraente lo intrigava, per qualche misteriosa ragione che, in una certa misura, poteva includere le sue cospicue risorse finanziarie. Dettaglio non trascurabile, in ogni modo, dato che stava incominciando a sospettare che il diploma in ragioneria non avrebbe condotto il suo ascensore sociale fino ai piani alti e forse nemmeno a quelli intermedi.

Comunque Carla, comprendendo che non avrebbe potuto contare sulla perseveranza di uno come lui, cedette già al secondo appuntamento, scoprendo che sul sedile posteriore di una Seicento quel ragazzo, più giovane di lei di nove anni, sapeva fare cose che mai si era immaginata, neppure nelle sue fantasie solitarie più audaci.

Iniziò una relazione saltuaria e certo non esclusiva per il bell’Osvaldo, il quale continuava a non interrogarsi sulle ragioni della sua assiduità: forse c’entrava la Giulietta Sprint rossa che lei guidava con spigliatezza o la disinvolta abilità con la quale gestiva la grande profumeria in Corso Buenos Ayres, ma c’era dell’altro ed era da ricercare nell’evidente attitudine al comando di Carla. A tratti fastidiosa, ma anche comoda, per uno che tendeva alla semplificazione del proprio quotidiano.

Quando gli capitava di interrogarsi, liquidava la faccenda concludendo che quella storia poteva costituire un’eventuale risorsa, per quanto gli sembrasse remota l’eventualità di volersene servire.

“Sono incinta”,

disse Carla una sera di punto in bianco, poco prima di Natale. L’Osvaldo ebbe la sensazione che nel tono della sua voce non vi fosse traccia di preoccupazione o d’imbarazzo, semmai un connubio di sfida e di soddisfazione. Eppure, era sempre stato attento…tranne una sola volta in cui lei lo aveva trattenuto con un abbraccio imperioso che lo aveva colto alla sprovvista. Un’unica, maledetta volta e ci sono cascato come l’ultimo dei fessi, porca miseria, pensò lui, annaspando nel vuoto pneumatico nel quale era precipitato all’istante.

“…e adesso?”,

“E adesso ci sposiamo, che altro?” replicò lei, con un tono dolce talmente falso da apparire beffardo.

 L’Osvaldo aveva comunicato la notizia ai genitori, che poco o nulla sapevano delle sue intricate frequentazioni femminili.

Sua madre aveva subito rivolto lo sguardo al padre, il quale domandò, senza girarci troppo attorno, se avesse avuto in mente di sposarla comunque.

“Manco per idea”

“…e allora sei un cretino e adesso ti tocca farlo e basta. Ti conviene adattarti, se non vuoi che una cazzata ti guasti le giornate per il resto della vita”, commentò brusco suo padre, chiedendosi se non avessero sbagliato a far trovare tutto facile a quel ragazzo; bello e bravo ma troppo leggero, incapace di impegnarsi, di fare progetti e faticare per realizzarli. Aveva studiato perché non gli costava nessuno sforzo, il lavoro glielo aveva trovato lui, il padrone della fabbrichetta di Cinisello era un suo vecchio amico. Era un ragazzo destinato a a non crescere mai; forse quel matrimonio con una donna più vecchia e tanto ricca lo avrebbe posto al riparo da sciocchezze più insidiose.

I preparativi per le nozze furono frenetici e se ne occupò la madre di Carla. Il matrimonio si celebrò in pompa magna alla fine di marzo con pranzo al Saint George Premier, nel Parco di Monza. I parenti dell’Osvaldo si acquattarono in un angolo, a disagio in mezzo a tutta quell’ostentazione. L’Osvaldo, il quale indossava con naturale eleganza l’abito da quattro soldi acquistato ai grandi magazzini, tentava di capire come infilarsi nei panni del personaggio che la sorte e le conseguenze della sua superficialità gli imponevano di interpretare.

Andarono in viaggio di nozze a Parigi; la perlustrazione della città li distolse dalla nuova condizione di conviventi, legati dal vincolo del matrimonio e con un figlio in arrivo.

Rientrati a Milano si stabilirono nel grande appartamento in via Costa, che i genitori di Carla le avevano intestato già da un decennio, fiduciosi che vi sarebbe entrata da sposa. Nel corso degli ultimi due anni, lo aveva arredato a suo piacimento per andarci a vivere da sola, senza tuttavia trovare il modo di rendere partecipe la famiglia delle sue intenzioni evitando di incorrere in un prevedibile contrasto.

A un certo punto un marito era arrivato, anche se non era quello che avrebbero auspicato per la loro unica figlia, e non mancarono di farlo notare in più occasioni.

All’Osvaldo non era sfuggito lo sguardo sommario di  scocciata superiorità con la quale i suoceri avevano soppesato e immediatamente bocciato tanto lui, quanto la sua famiglia e fin da subito aveva compreso che, a dispetto di qualsiasi sforzo  per essere compiacente, lo avrebbero sempre guardato con la medesima annoiata sufficienza.

Ai due sposi erano mancati sia il tempo che l’intenzione di approfondire la reciproca conoscenza, cosicché il cambiamento radicale prodotto dalla convivenza li trovò del tutto impreparati. Se era stato facile stabilire l’intimità sbrigativa di un amplesso consumato nell’abitacolo dell’auto, condividere uno spazio più ampio e quotidiano era un’altra faccenda. Non era un caso, se la donna non lo aveva mai invitato in quella casa, di cui aveva da tempo la disponibilità. La gravidanza era un azzardo che Carla aveva tenuto in considerazione più come opportunità che come rischio: voleva un figlio, prima che fosse tardi, e pretendeva che potesse crescere anche con un padre. Si era convinta (e, sebbene l’azzardo risiedesse appunto in questa intuizione, i fatti le diedero ragione) che quel ragazzo non si sarebbe sottratto alle sue responsabilità. Se ciò implicava tenersi un marito che non amava, che non l’amava e non le sarebbe mai stato fedele, pazienza. Anzi, in un certo senso semplificava le cose.

L’imminente maternità assorbiva tutte le attenzioni di Carla; l’appartamento era talmente vasto che non fu difficile aderire alla spartizione territoriale stabilita, limitando  i momenti condivisi. La presenza silenziosa e incombente di una vigile domestica contribuì a regolare i loro contatti sul registro di un’educata formalità: si scambiavano notizie e opinioni con cortese distacco, senza che la conversazione assumesse mai un tono confidenziale.

La collaboratrice famigliare, abruzzese di età indefinibile che, di norma, parlava solo se era strettamente necessario, si rivolgeva all’Osvaldo anteponendo al nome un sussiegoso signor. Non riuscì mai a convincerla a lasciar perdere quell’appellativo imbarazzante che sapeva di vecchio e, da un giorno all’altro, il bell’Osvaldo si trasformò, suo malgrado, nel signor Osvaldo. Dopo un poco, si convinse che non era alla sua persona che la domestica intendeva esternare rispetto, ma a sua moglie, nei confronti della quale nutriva un evidente timore reverenziale.

Quando si ritirava nella sua stanza, dato che dormivano in camere separate (fatto che lo offese e lo allietò in eguale misura), rammentava spesso la spensieratezza dei dopocena al caffè in via Gluck, a tirare l’ora di andare a dormire con gli amici cresciuti insieme a lui su quella strada, parlando di tutto e di niente o facendo programmi per il sabato sera. Ricordava le serate nelle sale da ballo, odore di fumo mescolato a innumerevoli fragranze femminili e silvestri dopobarba, sentore  di panni umidi, quando fuori pioveva o c’era una nebbia fradicia e burrosa, profumo di capelli freschi di parrucchiera e afrore di pelle meravigliosamente sconosciuta nell’abitacolo appannato della 600. Pensava a quella dimensione parallela e lietamente incosciente che oramai gli era preclusa; al massimo avrebbe potuto transitarvi occasionalmente da clandestino, ma non gli apparteneva più.

Intanto, vedeva il ventre di sua moglie arrotondarsi e non riusciva a provare alcuna partecipe tenerezza, né tanto meno lo inorgogliva pensarsi padre di quella creatura che sarebbe sempre stata solamente figlia o figlio di sua moglie, dato che gli era chiaro quanto il suo ruolo in quella storia fosse stato secondario, ancorché di indubbia utilità e destinato a rimanere tale.

Era il primo pomeriggio di un lunedì di giugno; la madre di Carla avvisò il genero di averla accompagnata alla clinica Mangiagalli perché erano iniziate le doglie.

Si diresse verso l’ospedale con calma, riluttante ad affrontare ciò che lo attendeva.

 Quando arrivò sua moglie era in sala operatoria, c’erano state delle complicanze durante il parto. Si presentò un chirurgo affranto: Carla aveva avuto una brutta emorragia ed era stato indispensabile procedere a un’isterectomia. La bambina, purtroppo, era sopravvissuta appena pochi minuti.

Nei giorni successivi, il signor Osvaldo provò una sincera compassione per sua moglie e per il dispiacere che si sforzava di comprendere, senza riuscire a condividerlo. I suoceri gli riservavano occhiate particolarmente malevole, come se fosse responsabile di quella disgrazia. Come se non fosse lui a essere stato gabbato da Carla, turlupinato dalla sorte e fregato per il resto dei suoi giorni.

Carla seguitò a tenerlo a distanza e si dedicò con accanimento al lavoro; la profumeria in Corso Buenos Ayres rendeva bene e aprì un altro negozio in Corso Garibaldi, dividendosi tra i due esercizi.

I genitori le cedettero il controllo del magazzino all’ingrosso e degli alloggi affittati e l’Osvaldo prese a farsi gli affari suoi, seppure con discrezione. Sua moglie se ne accorse e non se ne curò: le bastava portarsi dietro quel bel marito alle prime della Scala, a certi eventi organizzati dalle case cosmetiche di cui aveva la concessione, alle cene con i parenti o con i facoltosi amici della sua famiglia. In quelle circostanze, lui si annoiava e taceva, tanto nessuno si aspettava che partecipasse alla conversazione.

 A volte, dopo cena lei lo raggiungeva nella sua camera e gli si sdraiava accanto. Non c’era spazio per la tenerezza, era piuttosto una voglia furiosa, il desiderio di ferirsi a vicenda per scardinare una porta cocciutamente chiusa. Eppure, quel toccarsi ruvido, il prendersi senza riguardi rappresentava una forma di comunicazione primitiva e innocente capace di creare una pagina bianca sulla quale nulla era ancora stato scritto, un luogo arcano dove potevano raggiungere una provvisoria comprensione.

Ogni distanza colmata, qualunque giudizio cancellato, qualsiasi diffidenza rimossa: solo quella profonda e improbabile connessione, solo per un poco. In quei momenti, ognuno riusciva a guardare l’altro scorgendo ciò che forse avrebbe potuto amare; o, più probabilmente, era appena un’illusione alla quale entrambi si rivolgevano per sentirsi meno cinici e meno soli.

Al di fuori di quei periodici incontri, riprendevano a comportarsi come estranei beneducati i quali, per effetto di una sorte bizzarra, occupavano posti adiacenti sulla carrozza di un treno, senza neppure sapere se condividessero la destinazione.

Mentre il signor Osvaldo era affascinato e disturbato dalla durezza di sua moglie, una corazza inscalfibile che la poneva al riparo dagli abbagli dei sentimenti e dagli inganni delle emozioni, Carla osservava il suo bel marito e lo disprezzava per la mancanza di dignità, ammirando la facilità con cui riusciva a farne a meno.

Le vacanze estive a Forte dei Marmi, a Cannes o in Costa Smeralda, che erano comprese nel loro tacito accordo, erano un poco più complicate da gestire: troppo tempo da trascorrere insieme e nessuno spazio per certe distrazioni che difficilmente sarebbero passate inosservate.

Vi fu un momento in cui i suoceri insistettero affinché lui lasciasse il suo impiego (modesto, come non mancavano di rimarcare) per collaborare alle attività famigliari, ma lui respinse con l’abituale bella maniera ogni tentativo.

Bravi, così mi lego mani e piedi, manca solo che mia moglie mi dia lo stipendio. No, grazie, il mio impiego me lo tengo, pensava tra sé, e un giorno tentò di chiudere la questione con una bugia:

“Comunque, adesso sono capufficio”

“Capufficio di chi, scusa?” obiettò prontamente sua moglie.

Delle due impiegate che lavorano con me in contabilità”

“Non mi avevi parlato di queste nuove assunzioni”

…mica ti dico tutto”

“Questo lo so bene”, ribatté lei in tono tagliente e lui aveva perso, di nuovo, Però, almeno la smisero di premere affinché si dimettesse.

Dopo l’approvazione della legge sul divorzio, alla fine del ’70, il signor Osvaldo prese in considerazione l’idea di rescindere il contratto che lo legava a Carla. Non avevano figli ed essendo nullatenente non c’era niente che sua moglie potesse pretendere, anche solo per dispetto. Tuttavia, essendo ragioniere era piuttosto svelto a fare i conti. Quindi poteva prevedere con esattezza che genere di vita si sarebbe potuto permettere, con la sua unica entrata, anche ipotizzando di tornare a vivere dai suoi, in via Gluck.

Così continuò a pensarci senza avere nessuna intenzione di intraprendere quella strada, complicata e faticosa. In fondo, poteva godere di una vita agiata, con una moglie dalle pretese accettabili che tollerava la sua implicita infedeltà, in cambio della salvaguardia delle apparenze. La condizione di uomo sposato gli imponeva e gli permetteva di non impegnarsi con nessuna delle donne che frequentava. Non gli era mai capitato di innamorarsi, anche se per alcune, con le quali aveva intrecciato relazioni prudenti ma di una certa durata, aveva provato dell’affetto, e alla fine anche qualche rimpianto.

Così, un giorno dopo l’altro, trascorsero vent’anni; uno dopo l’altro, ognuno uguale all’altro.

Il signor Osvaldo comprava tutti gli anni un biglietto della Lotteria Italia senza nessuna speranza, tanto che a volte controllava la lista dei numeri vincenti con diversi giorni di ritardo. Non guardava nemmeno “Fantastico”, Baudo gli era antipatico e la Cuccarini gli faceva venire il nervoso, seppure senza un motivo specifico.

Era il 10 di gennaio e durante la pausa pranzo spesa in un bar di Cinisello, lo stesso dove aveva comprato il biglietto, si mise a scorrere i numeri di serie estratti, confrontandoli con il suo.

Rilesse tre volte. Bevve un sorso d’acqua. Rilesse, di nuovo. Si appoggiò allo schienale della scomoda sedia, perché gli girava un po’ la testa. Teneva tra le mani il biglietto abbinato al primo premio, cinquecento milioni di lire. Cinquecento milioni, e quello fu il solo numero che gli occupò il cervello per l’intero pomeriggio. Nella comprensibile confusione di quelle ore, era certo solo di una cosa: di quella vincita strabiliante non avrebbe fatto parola con alcuno e men che meno con sua moglie. Era venerdì e dedicò il fine settimana all’idea che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente poche ore dopo la scoperta della vincita. Il lunedì mattina aveva un piano e si diede subito da fare per realizzarlo.

Prima di tutto, si recò presso la filiale della banca dove aveva il suo conto personale, affidando l’incarico a riscuotere la vincita con la riservatezza del caso. Si sforzò di mantenere la calma fino a quando i soldi non gli furono accreditati e ci volle un mese; a quel punto prese un giorno di ferie e andò a Lugano per aprire un conto cifrato presso una nota banca svizzera. Era stato il cassiere al quale si rivolgeva abitualmente presso la sua filiale, compagno di classe al corso di ragioneria, a procurargli l’appuntamento e a fornirgli una serie di utili consigli. Nel giro di pochi giorni, quasi tutto il denaro che possedeva fu trasferito sul conto anonimo.

Era il momento di passare alla fase operativa del suo piano; andò a cercare Pippo, uno degli amici del caffè di via Gluck. Giocavano al pallone su quella strada quando erano bambini e non si erano mai persi di vista. Suo coetaneo, scapolo per convinzione e piuttosto soddisfatto del suo stato civile, Pippo era figlio di un ladro (ma anche la mamma, all’occorrenza, si dedicava profittevolmente al furto con destrezza tra le bancarelle del mercato) e nipote di ladri: una tradizione di famiglia, insomma. Solo che si trattava di delinquenti scalognati che trascorrevano più tempo a San Vittore che a casa propria. Pippo, invece, mise in atto il salto di qualità dedicandosi a un’attività illegale assai meno rischiosa che gli garantiva guadagni contenuti, ma costanti: produceva documenti falsi per chiunque ne avesse bisogno e senza fare domande, ed era decisamente bravo. Gli era solo mancata la grande occasione, ma sapeva accontentarsi.

Conosceva bene la storia del bell’Osvaldo, come tutti nella via; inoltre, gli era capitato di incrociarlo in qualche locale milanese in compagnia di diverse donne.

“Certo che posso aiutarti, ma un passaporto fatto bene ti costerà un po’ di soldi”

“…quello non è un problema, fidati”

“Va bene, allora portami delle foto in formato adeguato e dammi qualche giorno. Però, scusa: non potresti semplicemente divorziare? Non sono affari miei e non dovrei chiedertelo, ma…

“Ecco, appunto: non me lo chiedere”.

Rincasando, il signor Osvaldo rifletté sulla comprensibile osservazione dell’amico. La risposta alla domanda ce l’aveva, eccome. Il divorzio non gli sarebbe bastato, voleva mettere in scena un’uscita che nel giro di poco tempo diventasse   plateale e clamorosa, mettendo in imbarazzo sua moglie. Non una fine concordata, dapprima in privato e poi davanti a un legale, bensì una sparizione improvvisa. Nell’ambiente bigotto e pettegolo frequentato da sua moglie e dai suoceri, avrebbe suscitato molte chiacchiere maligne, proprio quelle che Carla aveva voluto evitare forzandolo a sposarla con lo stratagemma più disonesto e vecchio del mondo. Ora desiderava sfregiare e insozzare l’involucro di perbenismo nel quale sua moglie aveva impacchettato il fallimento del loro matrimonio e della sua intera esistenza. Nemmeno sfiorato dal dubbio di essere complice di quei disastri e artefice del proprio, pregustava la sua vendetta.

Il passaporto nuovo era perfetto: lo confrontò minuziosamente con il proprio e andò persino nello sconosciuto borgo dell’astigiano dove era indicata la residenza, trovando una grande cascina abbandonata, Pippo aveva fatto davvero un bel lavoro. Cercò un’agenzia viaggi a Sesto San Giovanni, per essere sicuro che nessuno lo conoscesse e scelse luogo e data, biglietto di sola andata. Non sapeva ancora che l’Inter avrebbe sfidato il Real Madrid nella semifinale di coppa UEFA proprio quella sera, dannazione.

Diede quindi le dimissioni e pregò il proprietario della fabbrichetta di non dare pubblicità alla notizia, preferiva farlo personalmente a tempo debito. L’uomo, decisamente poco incline alle chiacchiere con i suoi dipendenti, trovò la richiesta di silenzio un poco strana ma non ebbe difficoltà a esaudirla.

Alla sua famiglia spiegò che si sarebbe allontanato per un po’ di tempo per meditare su un probabile divorzio. Aggiunse che sarebbe andato in giro, magari in Francia.

I genitori non compresero del tutto le sue ragioni ma, d’altro canto, non capivano nemmeno come avesse potuto durare tanto a lungo quell’unione bislacca.

“Cerca solo di non fare altre scemenze”,

lo congedò suo padre, rassegnato da tempo all’evidenza che quel figlio non era cattivo, ma era fatto di una pasta diversa dalla loro.

Dopo un viaggio che pareva non finire mai, frastornato dalle meditazioni alternate a lunghi periodi di sonnolenza, nonché dal lieve attacco di panico che lo aveva colto al momento del controllo del passaporto, il signor Osvaldo sbarcò all’aeroporto di Fort de France-Lamentin e si avvicinò al punto di ritiro bagagli. Borse e sacche di varie fogge scorrevano sul nastro trasportatore circolare, in numero minore a ogni giro, finché non restò solo la sua grossa valigia.

Si riscosse dal torpore che lo aveva infiacchito osservando la monotona sfilata (non così dissimile dagli ultimi vent’anni della sua storia) e l’acchiappò con lo slancio con cui si coglie al volo l’ultima occasione.

In quel paesaggio idilliaco tutto sembrava remoto; persino la notizia spaventosa dell’esplosione del reattore alla centrale nucleare di Chernobyl, con le catastrofiche conseguenze immediate e future, giungeva attutita dall’assurdo convincimento che non potesse riguardare in alcun modo nessuno dei momentanei fuggiaschi che si trovavano sull’isola.

Mentre si annoiava su spiagge meravigliose, circondato da coppie di giovani entusiasti e da affiatate coppie di pensionati arzilli, tutti egualmente impegnate a coltivare la salutare illusione di avere ancora molte carte da giocare, pensava alla prossima mossa da attuare. Aveva acquistato un biglietto di sola andata per poterlo fare con calma e in un posto lontano; l’intenzione era quella di trasferirsi a Santorini, luogo dove aveva trascorso una recente vacanza con Carla e che lo aveva colpito per la sua bellezza aspra, per i colori vividi e la luce schietta.

Diversamente da ciò che gli aveva raccomandato Pippo, aveva portato con sé i suoi documenti autentici, tenendoli addosso per tutto il viaggio e riponendoli poi nella piccola cassaforte di cui era dotato il bungalow dove alloggiava. In realtà, non era mai stato convinto di vivere il resto dei suoi giorni sotto falsa identità: troppo rischioso, era una consapevolezza che lo teneva in apprensione. Desiderava scomparire per qualche tempo con la certezza di non essere rintracciabile ma l’ultima parte del piano prevedeva che sarebbe rientrato nei propri panni, per iniziare una nuova vita altrove, alla luce del sole. A quel punto, se sua moglie lo avesse ritrovato tanto meglio, anzi, avrebbe assistito con soddisfazione al suo disappunto.

Così, alla fine di maggio si imbarcò su un volo per Parigi. Vi rimase una notte, registrandosi in albergo con il suo vero nome. Tagliò il passaporto falso in pezzetti minuscoli e li gettò in un tombino; il giorno successivo prese il primo volo per Linate. C’era però un altro pensiero che lo rendeva inquieto: era ragioniere e gli veniva spontaneo fare i conti. Dunque, la somma che aveva vinto corrispondeva grosso modo a trent’anni di paga percepita con l’impiego di contabile. Aveva appena quarantasei anni, significava vivere parsimoniosamente fino ai settantasei, oppure mantenere gli agi a cui era abituato per la metà del tempo. Potevano esserci altre possibili combinazioni, tutte suddivise in un periodo di conservazione dello stile di vita spensierato, che il matrimonio gli aveva garantito, alternato a uno di oculatezza. Essere bravi a fare i conti non implica sapersi amministrare e il bell’Osvaldo non aveva mai dovuto preoccuparsene, qualcun altro lo aveva sempre fatto al posto suo. Percepì una sgradevole insicurezza e non gli piacque affatto: a Santorini avrebbe dovuto per forza cercarsi un lavoro.

Arrivando a Linate, guidato dalla curiosità si diresse al parcheggio dove aveva lasciato l’auto: non ve ne era traccia, segno che in qualche maniera sua moglie l’aveva recuperata (del resto, era sua anche quella), quindi lo aveva fatto cercare ed era arrivata fin lì. Chissà cosa aveva pensato e cosa aveva fatto, a quel punto.

I suoi genitori, che da quando si era sposato avevano incontrato sua moglie a scadenze più o meno quinquennali, durante quelle settimane non erano stati contattati in alcun modo, fatto del tutto prevedibile.

Il signor Osvaldo spiegò loro che si sarebbe trasferito definitivamente a Santorini e che sarebbe stato più preciso non appena si fosse sistemato.

“E con tua moglie cosa hai intenzione di fare?” domandò suo padre.

“Quando mi chiederà il divorzio, firmerò tutto quello che c’è da firmare”, rispose senza esitare: perché era certo che lei stesse continuando a cercarlo e, avendo rinunciato alla falsa identità, ora avrebbe potuto trovarlo facilmente.

La sera del 16 aprile, rincasando dopo lo spettacolo teatrale, Carla aveva notato l’assenza dall’autorimessa della Lancia Delta utilizzata dal marito. Non se ne stupì; da due o tre mesi usciva con maggiore frequenza, doveva avere una fidanzata nuova. Sembrava anche in preda a una costante eccitazione che non riusciva a dissimulare completamente e che, stranamente, dando per scontato che il motivo fosse legato a un’altra donna, si traduceva in un trasporto particolare durante i lori incontri periodici. Carla non era mai stata gelosa delle altre presenze femminili nella vita di suo marito, ma le era montata una curiosità morbosa e, in quei momenti di foga avrebbe voluto porgli delle domande dirette, farsi raccontare com’era con l’altra. Non lo aveva fatto poiché le mancava l’audacia e non era neppure sicura che tali rivelazioni non potessero turbarla. Si mise a dormire senza alcuna preoccupazione.

Tuttavia, quando la mattina dopo si sedette in sala da pranzo per la colazione e vide che il posto di fronte al suo era già stato sparecchiato, alzò un sopracciglio e guardò la fedele domestica.

“Il signor Osvaldo deve essere uscito presto e senza fare colazione, stamattina. Ha anche rifatto il letto” , disse la donna rispondendo a quell’alzata di sopracciglio. Pronunciò l’ultima frase mentre le stava già volgendo la schiena per rientrare in cucina, perché non avrebbe saputo dire una bugia simile a colei che, tra sé, definiva la mia signora, guardandola in faccia.

In tanti anni, non era mai successo che suo marito non tornasse a casa a dormire, infrangendo una regola non scritta ma inderogabile. Carla sentì salire da qualche profondità una rabbia furibonda. Attese per tutto il giorno una telefonata che non arrivò; poco prima delle sei lo cercò in ufficio e una voce imbarazzata le rispose che il ragionier Bestetti non lavorava più lì, aveva terminato il periodo di preavviso proprio la sera prima.

Il signor Osvaldo non comparve neanche all’ora di cena; Carla fece una cosa che non aveva mai fatto: entrò nella camera del marito e aprì armadio e cassettone. Mancavano dei capi estivi, alcune giacche leggere, tutta la biancheria, diverse maglie. Nel cassetto del comodino trovò la custodia in pelle del passaporto, vuota.  Allora, finalmente, capì.

L’investigatore privato, al quale si rivolse nei giorni successivi, rinvenne abbastanza in fretta l’auto a Linate; il biglietto posto sul parabrezza indicava giorno e ora di arrivo,  ma Osvaldo Bestetti non risultava su alcuna lista passeggeri di nessun volo partito quella sera da Linate.

Carla ordinò di sospendere le ricerche; ne sapeva abbastanza.

Per qualche settimana accampò delle scuse per disertare gli impegni che prevedevano la presenza del marito al suo fianco. Si stufò presto della commedia e considerò che fosse giunto il momento di fregarsene di ciò che gli altri avrebbero pensato e detto, a partire dalla sua famiglia. Quindi, spiegò che si erano presi una pausa per riflettere, ma che sicuramente avrebbero presto avviato le pratiche per il divorzio.

Alla domestica, invece, disse che il signor Osvaldo sarebbe stato via per un periodo imprecisato ma le raccomandò di tenere sempre la sua stanza, lo studio e il bagno puliti e in ordine, perché sarebbe potuto rientrare da un momento all’altro.

Una notte in cui non poteva prendere sonno, Carla andò nella stanza del marito e si sdraiò sul suo letto. Si mise a ripensare agli anni trascorsi accanto a quel bell’uomo che non era mai stato suo, eppure le aveva fornito una compagnia piacevole e del sesso assai gratificante, servigi generosamente ricompensati. Grazie al patto concordato sottotraccia era potuta sfuggire agli sguardi di compatimento che vent’anni addietro molti riservavano alle donne poco attraenti e sole, anche se ricche e indipendenti. Le era servito per adeguarsi a un modello conformista al quale non aveva saputo sottrarsi e che ora poteva gettare come un abito vecchio. Era libera, finalmente, non le serviva più. E allora cos’era, la malinconia suscitata da quel letto vuoto?

S’immaginò che magari, ovunque fosse andato, una volta finiti i soldi sarebbe tornato per tentare una riconciliazione. Pensò, divertita, che avrebbe potuto offrirgli un compenso adeguato per delle prestazioni saltuarie. In fondo, lo aveva fatto per oltre vent’anni, comprandolo (dopo una piccola forzatura che nemmeno era andata a buon fine) quando aveva intuito che poteva essere in vendita: discendendo da una stirpe di palazzinari e commercianti, per queste cose aveva un buon fiuto.

Non lo avrebbe più cercato; se ciò implicava che un giorno avrebbe potuto ereditare i suoi beni non aveva nessuna importanza: non c’erano figli né nipoti, sarebbe stato il suo ultimo regalo. Si augurava che non tornasse mai: non lo desiderava affatto ma, nel caso, non poteva dirsi certa di riuscire a sbattergli la porta in faccia.

Dopo la pacifica invasione estiva dei turisti, verso la metà di ottobre sull’isola di Santorini era finalmente tornata la quiete. Le giornate si accorciavano ma il clima  era gentile e i tramonti a Oia, all’estremità settentrionale, continuavano a dispiegare una sontuosa gamma cromatica di arancio, rosso e oro, solo con un po’ più di anticipo. Per le strade era finalmente tornato il silenzio, dalle porte bianche e blu spalancate sul ciglio delle scogliere entrava la voce del mare, accompagnata dal suono sibilante del vento.

Stava seduto su una panca posta a fianco di uno di quei metaforici varchi, il bell’Osvaldo (non più signor e ancora decisamente bello), contemplava il selvatico giardino di una casa appollaiata sulla scogliera e, più sotto, il mare. Bianco e blu, bianche le case, le chiese, le innumerevoli croci; blu il cielo, il mare, le porte, le imposte. Era riposante, quel candore circondato di blu.

Gli venne da domandarsi, così, all’improvviso, se fosse felice, se stesse davvero vivendo la vita che voleva. Non lo sapeva, non trovava una risposta che non implicasse qualche obiezione; ne concluse che era meglio ritrarsi in fretta da quell’insidioso interrogativo.

Appena arrivato sull’isola, verso metà maggio, aveva affittato un piccolo appartamento in una struttura vicino alla spiaggia nera di Perissa, lungo lembo di ciottoli vulcanici neri e levigati.  Non c’era ancora molta gente ed ebbe modo di entrare in confidenza con il proprietario, ateniese in esilio volontario e felice (come egli stesso gli raccontò) di poco più vecchio di lui. Dapprima gli chiese qualche indicazione sulle case in affitto, sul luogo e sulla possibilità di frequentare un corso per imparare la lingua, dato che intendeva fermarsi a lungo e magari per sempre. Chiacchieravano spesso, quando l’uomo gli chiese se fosse sposato rispose che era in attesa di divorzio e l’altro replicò di esserci già passato da un pezzo, era stato uno dei motivi per cui aveva abbandonato Atene.

In attesa di divorzio. Per essere più precisi, aspettava che sua moglie si facesse viva e, più passavano le settimane, più si meravigliava che ciò non accadesse. Ormai era chiaro che non le interessava affatto ritrovarlo; ancora una volta, aveva deciso lei per tutti e due. Tuttavia, la sua rinuncia a una risoluzione definitiva era decisamente strana.

Un giorno Jorges, il suo nuovo amico, gli confidò di essere furente e nei guai, perché il fratello, che lo aiutava nella conduzione del residence, del ristorante e dei due bar che possedeva tra Perissa, Kamari e Oia, si era stufato e se ne era tornato ad Atene con la moglie. Rimanevano lui e la madre a mandare avanti tutto, e non ce l’avrebbero fatta. Poi, gli chiese se per caso non gli interessasse un lavoro del genere. L’Osvaldo gli aveva confidato che stava pensando a un’attività in proprio ma non aveva ancora le idee chiare. Del resto, non le aveva mai avute, nemmeno prima di allora.

“Mi affiancheresti nella gestione degli acquisti e dei rapporti con il personale, e anche con quel fetente del commercialista giù a Thira, visto che sei ragioniere. Ti offro paga e alloggio nel monolocale con la veranda che c’è in fondo al giardino, un po’ discosto dalla struttura del residence. Era lì che stava mio fratello”.

Il bell’Osvaldo era sempre stato un uomo pacificamente ignavo, pigramente temporeggiatore, ingenuamente amorale. Però, lo aveva sempre salvato una buona dose di fortuna: in alcune circostanze, qualche autentica botta di culo.

Fu la madre di Jorges a insegnargli la lingua: ad Atene era stata docente alla scuola primaria e del vecchio mestiere aveva conservato la preparazione e il piglio severo.

Il lavoro gli piaceva: impegnativo ma con orari flessibili che consentivano frequenti momenti di libertà, non era mai noioso e lo poneva in contatto con molte persone con le quali era portato a intrattenere rapporti di superficiale cordialità. Si era subito trovato bene con il suo nuovo datore di lavoro. A volte provava la stramba impressione di conoscerlo da tanto tempo; neanche si era accorto di quanto Jorge somigliasse a sua moglie: come lei era instancabile e poco incline alle distrazioni, autoritario e abituato da sempre a maneggiare una solida ricchezza. Inoltre, proprio come sua moglie, formulava congetture lucide e rapide che gli consentivano decisioni tempestive. Quindi, non era solamente la perizia nel far di conto che facilitava l’Osvaldo nella sua nuova mansione accanto a un personaggio che molti trovavano difficile. Benché avesse cercato di rompere uno schema nel quale, tutto sommato, si era accomodato senza grande sacrificio, lo aveva riprodotto altrove con poche, trascurabili varianti.

Da qualche tempo frequentava una donna un poco più giovane di lui che faceva la cameriera nel ristorante di Jorges. Morbida nell’aspetto e nel carattere, era priva di asperità ma anche di profondità: uno spirito semplice, una compagnia allegra e premurosamente solidale. Non aveva avuto una vita facile, fino a quel momento; l’Osvaldo sentiva che avrebbe dovuto prendersene cura e non sapeva se ne sarebbe stato capace, non sapeva se lo voleva.  Dopo i suoi genitori, era sempre stata Carla ad accudirlo, sebbene senza gentilezza: Carla, che nemmeno lo cercava per chiedere il divorzio. E lui aveva perso, di nuovo. Gli rimaneva il peso della libertà,  e la consolazione di tutto quel bianco e di tutto quel blu.

…I’m easy like Sunday morning

I wanna be high, so high

I wanna be free to know the things I do are right

I wanna be free…

(“Easy”, Faith No More)

…Sono tranquillo come la domenica mattina

Vogli essere su di giri, molto su di giri

Voglio essere libero di sapere che le cose che faccio sono giuste

Voglio essere libero…