UNA GIORNATA PARTICOLARE

Il babbo mi ripeteva spesso che lo stile di vita che continuavo a praticare con consapevole noncuranza mi avrebbe condotta alla solitudine.

L’osservazione voleva essere una specie di ammonimento predittivo, eppure il tono rivelava l’indulgenza e un’affettuosa complicità. Forse si era convinto che sarei stata in grado di accettare ogni conseguenza della scelta di un’incorruttibile autonomia. Non dover rendere conto a nessuno, fare e disfare a proprio piacimento e a seconda delle opportunità, decidere con la leggerezza consapevole di chi non deve preoccuparsi delle esigenze e dei sentimenti di qualcun altro.

Però, adesso che non c’è più lui ad alimentare la mia temeraria presunzione, mi domando se non ci siamo sbagliati tutti e due, sul mio conto.

Queste riflessioni mi vengono in mente stamattina, mentre bevo il caffè e osservo dalla finestra la lunga striscia dorata che a est si allarga e sbiadisce, stemperandosi nel cielo sereno, perché oggi è il mio compleanno.

Se tu fossi ancora qui mi staresti già telefonando: a un’ora che in questa stagione non è del tutto fuori dalla notte per godere del privilegio di essere il primo a farmi gli auguri. Come se ci fosse la coda, che nemmeno gradirei, peraltro.

Faremmo qualche osservazione banale sugli anni che passano, mi chiederesti che programmi ho per oggi, ora che ho tempo di farne. Già, perché se a settant’anni non si sviluppano risorse per riempire delle ore altrimenti vuote ci si annoia, si perde il contatto con la realtà e, a poco a poco, con se stessi. Brutta faccenda.

Io non so cosa sia la noia e le giornate continuano a scorrere sempre troppo in fretta: il mondo è ricco di storie interessanti che si possono scovare in molti modi, basta esserne curiosi; ma oggi sono concentrata su un unico impegno che, sebbene sarà di breve durata, sta assorbendo le mie attenzioni, i miei pensieri, i miei sentimenti.

Ho infine venduto la casa dove tu, babbo, hai vissuto negli ultimi quarant’anni insieme alla mamma: nel pomeriggio firmerò il rogito consegnando le chiavi ai nuovi proprietari. Una stretta di mano, tante care cose e quella dimora non sarà più della mia famiglia,  e non riesco a pensare ad altro.

Non ho mai capito la decisione di rintanarsi in quell’anonimo paesetto di provincia dove eri sfollato tanti anni prima, in tempo di guerra. Le amicizie di allora sempre mantenute e coltivate anche dopo, certo, ma è una scelta che non ho compreso fino in fondo. Tuttavia, ho sempre avuto ben chiaro il valore di quella casa, un antico edificio cadente che hai recuperato seguendo il tuo gusto. È stato l’ultimo rifugio dopo aver passato buona parte della vita in affitto a Milano: corso di Porta Vigentina, poi San Siro, infine Quarto Oggiaro.

Io sono rimasta a Milano ma ho lasciato Quarto Oggiaro alla fine del ’90. Era uno dei frequenti momenti in cui ho abbandonato una strada per intraprenderne un’altra e si trattò di un cambiamento sostanziale. Un nuovo impiego meglio retribuito e la riscossione di una liquidazione decennale mi indussero ad accendere un mutuo per acquistare l’appartamento nel quale abito tuttora, in via Procaccini. Si trova in un edificio risalente agli anni ’50 ed è un bilocale proprio piccolo; d’altronde, non ho mai pensato di condividerlo con qualcuno. Rammento che cambiando casa e impiego eliminai dal mio orizzonte anche il fidanzato di allora.

Ecco, i fidanzati: ogni volta che mi è capitato di imbattermi in un uomo che meritava più di un’attenzione effimera mi sono posta la medesima domanda: “piacerebbe a mio padre?”. Ora mi sorge il dubbio che, in realtà, la questione fosse quanto il tizio di turno potesse assomigliargli.

Così, se a settant’anni non ho un compagno potrebbe essere un po’ colpa tua, babbo caro.

“Se c’è in giro uno scemo, tu vai a pescarlo”,

sentenziavi periodicamente, commentando le mie relazioni quando si chiudevano, perché sei sempre stato pronto a sorreggermi mantenendoti implacabile nei giudizi.

In realtà, non ho frequentato solo scemi, le storie finivano perché non funzionavano, oppure erano sbagliate già nei presupposti. Ultimamente accadeva che sfogliassimo insieme i ricordi delle mie vicende amorose come si girerebbero le pagine di un polveroso album di vecchie foto. Ne emergeva una sorta di “galleria degli scemi” dei quali ridevamo, sebbene riguardo ad alcuni di questi le mie risate fossero prive di allegria.

Ho firmato, ho scambiato sorrisi e frasi di circostanza, infine ho preso il tram per tornare a casa con la borsa alleggerita dai quattro mazzi di chiavi, dai quali mi sono separata, e appesantita da un assegno corrispondente a una somma ragguardevole. Non ho mai avuto così tanti soldi e non ho ancora valutato quali potrebbero essere gli effetti di questo cambiamento.

Vivendo da sola ho imparato la prudenza, ma non la parsimonia, mantenendo un fondamentale disinteresse verso il denaro: per effetto di ciò, non avrei potuto  permettermi di prendermi cura di una proprietà a tanto grande e lontana.

Gli acquirenti sono una coppia di quarantacinquenni milanesi piuttosto gioviali. Se ne sono innamorati e hanno voluto comprarla a tutti i costi (che se ne faranno di tutto quello spazio, ma sono affari loro), sopportando con pazienza le lungaggini legate ad alcune irregolarità edilizie che ho dovuto sanare.

Mi consola pensare che quel posto tanto caro alla mia famiglia non sarà più vuoto e abbandonato, tornerà a essere un luogo amato, popolato di voci e persone vive, anziché di fantasmi e di ricordi.

Benché vi abbia trascorso solo brevi periodi di vacanza, ho sempre sentito un legame profondo con la casa che per mio padre rappresentava il raggiungimento dell’ultimo traguardo importante della sua esistenza, che si è sviluppata lungo gli anni seguendo un percorso lineare e in costante ascesa. Dopo il culmine, è iniziata la lenta parabola discendente del decadimento fisico, terminata con il brusco e definitivo balzo nel buio.

Non ho mai capito se fossi credente, babbo: è un argomento che hai sempre evitato a dispetto delle mie sollecitazioni. Penso che ti sia sottratto a questo confronto semplicemente perché la fede non si può argomentare e sapevi che sarebbe stato proprio su questo assioma che io avrei mosso le mie obiezioni.

Mi hai insegnato tu a dubitare (atteggiamento che non ha niente a che vedere con l’esitazione) e a esercitare il senso critico, sempre. Diversamente da te, che tentavi di risolvere i dubbi con attente e prudenti valutazioni, sono stata più spesso governata dall’impazienza e, se non dall’istinto, dalle intuizioni. Infatti, il tracciato della mia intera storia appare ricco di deviazioni e di qualche ingarbugliamento, di inciampi e di affannose risalite.

La fermata alla quale sarei dovuta scendere è passata e non me ne sono neanche accorta, mi tocca tornare indietro. Mentre cammino in fretta nell’aria tagliente del tardo pomeriggio di gennaio sono colpita da una considerazione: da oggi in avanti non avrò più un nascondiglio sicuro, un altrove esclusivo dove trovare riparo e consolazione.

È questo il senso vero della solitudine, babbo? Tu ne avevi così paura da rifuggirla ogni giorno: eppure, eri solo quando il tuo tempo si è concluso. Ma vedi, che si muoia all’improvviso in mezzo a una strada, nella sofferenza di una brutta malattia o per naturale consunzione da vecchiaia, l’ultimo istante ci troverà sempre da soli.

 Comunque, benché da tempo non abbia un compagno (nemmeno deliberatamente provvisorio), posso contare sull’affetto e sulla solidarietà di alcuni cari amici e persino sulla profonda sorellanza con tre donne, clamorosamente riemerse dal passato abbastanza di recente.

Sai, babbo, per lungo tempo sono stata schiettamente contraria a qualsiasi forma di convivenza e piuttosto scettica sulle gratificazioni prodotte dalle relazioni stabili. Oggi riconosco che, probabilmente, se fossi stata un poco più avveduta nelle mie scelte sentimentali, o magari solo più fortunata, ora sarei felicemente sposata con un uomo del quale non mi sono mai stancata e vivremmo in una vecchia casa in cima a una collina, dove il tempo scorrerebbe più morbido, facendo apparire le giornate un poco più lunghe. Ci faremmo compagnia anche con i silenzi e ci appoggeremmo l’uno all’altra, a mano a mano che i passi si faranno più incerti. Fino a quando uno dei due non se ne andasse, ed ecco che la solitudine diviene un’eventualità difficilmente eludibile. È andata come è andata, caro babbo, ma la verità è che fino a un certo punto è stata una scelta, poi si è trattato solo di adeguarsi a delle circostanze che non sono più mutate. Ormai è troppo tardi per qualsiasi rimpianto; le parole danno forma al rammarico trasformandolo dallo stato liquido o, peggio ancora, gassoso, allo stato solido, ne disegnano i contorni e i confini.

Il rincrescimento diventa narrazione e puntigliosa analisi, si stabilisce un punto di osservazione al di fuori di sé. Potenza delle parole, che a me non sono mai mancate.

Da te e dai tuoi avi ho senza dubbio ereditato la tendenza a una forma di innocente autocompiacimento accompagnata al piacere dell’esibizione delle proprie capacità, solo che io non posseggo nemmeno la metà del talento di cui tu, invece, ti potevi vantare.

Parliamoci chiaro una volta per tutte, babbo: io sono solo un bluff, sono solo un enorme bluff.

Oggi compio settant’anni e voglio finalmente rivelarlo con appagante spudoratezza.

Non preoccuparti, non me ne faccio un cruccio: se fin qui sono riuscita a essere convincente allora vuol dire che, almeno in una cosa, sono stata brava.

Ma che razza di pensieri, nel giorno del proprio compleanno. Tra l’altro, non sono mai stata interessata ai bilanci che, comunque, non quadrano mai e continuo a tenermene decisamente alla larga. È che non riesco a smettere di pensare alla casa che non è più nostra ma anche a quello che è stato e a ciò che non è stato, a cosa e in quale momento abbia determinato una delle due declinazioni

I miei amici avrebbero voluto che festeggiassimo insieme questa data ma ho spiegato loro che per me sarebbe stata una giornata difficile; dunque, preferivo chiudermi in casa e passare la serata davanti al televisore a guardare di nuovo “Twin Peaks”. Mi conoscono assai bene e non hanno insistito.

Sono le otto passate e non ho neppure cenato, non riesco a scrollarmi di dosso una malinconia appiccicosa e ingannevolmente dolce. Cerco di seguire i complicati processi mentali dello stralunato agente Dale Cooper, il quale detta di continuo appunti destinati a una misteriosa Diane parlando dentro un dittafono. Lo fa anche mentre si allena standosene appeso a testa in giù, nella stanza di un motel che profuma di abete. Non posso non ricordare un giovane Richard Gere nei panni (pochi) di un American Gigolò che, più o meno dieci anni prima, esibiva la sua rimarchevole prestanza dalla medesima posizione incomoda. Io, che non mi trovo né a Los Angeles né a Twin Peaks, stato di Washington, dove tutti quegli alberi segnalano la vicinanza del confine con il Canada, bensì nello spazio ristretto della mia abitazione milanese, sto sperimentando un inedito senso di oppressione claustrofobica.

Via, fuori da qui, per quanto possa essere insensato uscire a passeggiare a Milano, in gennaio e a quest’ora di sera. Mi rivesto, perché trovo che uscire di casa in tuta sia un’inammissibile sciatteria, a meno che non si cerchi scampo da un incendio o anche da un assassino, naturalmente.

A proposito, io mica mi ricordo chi ha ucciso Laura Palmer; ma come ho fatto a scordarlo? Sono certa che tu, babbo, me lo sapresti senz’altro dire: avevi una memoria formidabile e questa serie piaceva tanto anche a te.

Guardo il cielo senza luna coperto da una coltre di nubi, mi pare che oggi pomeriggio facesse più freddo, nonostante il sole.  Via Procaccini a quest’ora è tranquilla, passa qualche macchina e il tram numero 10, annunciato dal familiare rumore di ferraglia, è quasi vuoto. Le finestre delle case sono illuminate, cerco di immaginare le vite degli altri dietro quei vetri.

Cammino verso via Mantegna, proseguo per piazza Gerusalemme e via Poliziano; arriverò fino in via Piero della Francesca e poi tornerò verso casa dall’altro lato di quella strada. Mi piacciono i percorsi circolari che non costringono a ripetere i propri passi all’inverso, trovo che abbiano un senso di compiutezza, di giusta conclusione.

La perfezione del cerchio, il principio che si congiunge alla fine e un ciclo potrebbe riscriversi all’infinito, ma anche la protezione e l’esclusione. Il cerchio, magico e stregato, è una figura che si presta a molte metafore.

Mi domando se non ci sia dell’incongruenza con la mia predilezione per le invenzioni letterarie con un finale aperto, quelle che ti lasciano la responsabilità d’immaginarti un’evoluzione ignota, eppure probabile. Tante mie relazioni, anche di amicizia, si sono concluse senza un finale: con un allontanamento, qualcosa di non detto, di silenziosamente troncato. Mi è successo di ritrovare dei vecchi amici, come se l’antico affetto fosse stato solo riposto e conservato con cura. Invece, gli amori interrotti sono finiti e basta.

Sono assorbita da queste riflessioni quando percepisco un ringhiare sommesso e subito dopo mi trovo davanti l’animale che lo sta producendo: è un grosso cane nero piantato sulle zampe appena divaricate, la schiena leggermente ingobbita e, per quanto io non abbia paura degli animali, in questo momento preferirei che fosse altrove. Rimango immobile e penso che se mi salterà alla gola forse la spessa sciarpa che mi avvolge il collo e parte del volto riuscirà a proteggermi.

“Ombra!”

Il cane reagisce al richiamo imperioso girando la testa, ma non si schioda. L’uomo che lo raggiunge di corsa è alto e robusto, lo afferra per il collare e aggancia un guinzaglio.

“Ecco, forse sarebbe meglio tenere legato ‘sto coso”,

esclamo mentre riprendo a respirare regolarmente.

“Coso? Non è un coso, è un cane grande e grosso ma è un fifone che ha paura anche della sua ombra e ancora di più delle persone. Ha solo un anno ed era un randagio che deve avere avuto un’infanzia difficile. Comunque, le chiedo scusa, ha ragione. Va tutto bene?”

Credo di avere usato un tono piuttosto aggressivo e mi dispiace, così cerco di essere conciliante.

Ma sì, certo, ero distratta e mi sono spaventata, ecco tutto. Dunque, Ombra è un maschio con un nome femminile?”

“È un maschio, sì. Ma ombra è una parola neutra, priva di genere e universale. Ogni corpo solido, che sia vivo, morto o inanimato, se colpito dalla luce proietta un’ombra. E poi, Ombro era proprio brutto”.

Ha detto una scemenza ma la risata che mi scappa è sincera, persino allegra.

Osservo meglio quest’uomo: deve avere più o meno la mia età e, benché sia un poco sovrappeso (o forse è solo infagottato), i movimenti e la gestualità appaiono agili ed energici. Ha il volto dai tratti irregolari e stropicciati, eppure gradevoli e l’espressione cordiale, i capelli brizzolati sono folti e spettinati, ma non mi aspetto che uno si preoccupi di pettinarsi per portare fuori il cane la sera. In compenso, sotto la giacca a vento non indossa la tuta che avrebbe suscitato la mia inappellabile riprovazione, bensì pantaloni di velluto e dolcevita.

Ci stiamo guardando con aperta sfacciataggine intanto che Ombra, ormai tranquillizzato, aspetta fiducioso di riprendere la passeggiata serale.

C’è un momento di imbarazzo in cui le parole vengono a mancare, come manca la disinvoltura giovanile di decidere in fretta dove si vuole condurre una conoscenza casuale.

“Meglio camminare, se non vogliamo prendere un accidente. Mi chiamo Ettore e, come minimo, penso che dovrei scortarla ovunque stesse andando”.

No, troppo formale per un incontro scaraventato dal caso dentro una sera d’inverno.

“Ciao, sono Marilena e non credo di aver bisogno di una scorta, dato che abito qui vicino. Ma sono uscita perché, per quanto possa sembrare stravagante, avevo bisogno di aria e di movimento. Quindi camminiamo, se ne hai voglia”.

“E allora andiamo, Marilena”.

“Oggi è il mio compleanno”

“Capita a tutti, una volta all’anno”,

replica lui ridendo e senza farmi gli auguri, dettaglio che apprezzo; mi rendo conto di avere rivelato un fatto scontato presentandolo come se fosse un’ingiustizia, addirittura un affronto. Vorrei aggiungere dell’altro, ma non sono pronta.

Sull’angolo con via Castelvetro, davanti al portone di un vecchio palazzo ben tenuto, il cane ha un’esitazione: Ettore, che ha un anno più di me, abita qui da quando divorziò, nel 2017, ma ha preso davvero dimestichezza con la zona solo da quando è andato in pensione tre anni orsono, dopo avere “chiuso l’ambulatorio veterinario che conduceva da quando era poco più che trentenne, dalla parte opposta di Milano.

“Ma è uno di quei mestieri che finiscono per identificarti; non “fai” il veterinario, “sei” veterinario. Così mi dedico al volontariato collaborando con un’organizzazione che  accoglie animali abbandonati e cerca qualcuno che voglia prendersi cura di loro. È da lì che viene Ombra”.

Gli spiego che anch’io sono  in pensione da tre anni dopo avere lavorato per quasi tre decenni nel settore farmaceutico, sebbene non sempre nella stessa azienda.

Siamo in Corso Sempione e quando passiamo davanti a un bar che conosco bene e che offre anche alcune pietanze accettabili, propongo al mio imprevisto accompagnatore di entrare a prendere qualcosa.

Quando si toglie la voluminosa giacca imbottita, noto che ha una figura imponente ma tutt’altro che appesantita.

Scopro che nemmeno lui ha cenato; seduti l’uno di fronte all’altra, davanti a un tagliere di affettati e a due calici di onesto vino rosso, la soggezione che accompagna l’improvvisa vicinanza tra sconosciuti si stempera nel tepore del locale e la conversazione si snoda seguendo i criteri di una rilassata improvvisazione.

Ettore ha una voce chiara dal timbro tenorile; conversando esprime di tanto in tanto un’ironia lieve che si tiene alla larga dal sarcasmo.

Dopo un po’ mi racconta di un divorzio conseguente a un abbaglio, una relazione con una donna assai più giovane della quale si era stancato quasi subito. Il suo matrimonio era finito da un pezzo e per altre ragioni, eppure aveva avuto bisogno di quel pretesto per porvi fine.

“Quando ci siamo sposati eravamo molto giovani, il nostro unico figlio è nato l’anno successivo. Non ho trovato il coraggio di dire a mia moglie che l’amore per lei si era esaurito e che a volte mi infastidiva la sua semplice presenza. Non gliel’ho mai detto e mi dispiace, perché si meritava la sincerità, ma a un certo punto ho pensato che forse l’avrei ferita ancora di più”.

Gli faccio notare che la sottovalutazione della capacità femminile di gestire la verità, qualunque essa sia, è tipicamente maschile e deriva dalla commistione di un’arbitraria pretesa di protezione, di presunzione del proprio insostituibile ruolo e, infine, di vigliaccheria. Lo dico senza durezza, faccio solo una constatazione alla quale non replica.

“Perché il giorno del tuo compleanno ti da tanto fastidio?”

Mi chiede fissando gli occhi scuri nei miei, in modo da non lasciarmi via di scampo.

Gli confido che, per una singolare coincidenza, nel giorno del  mio settantesimo compleanno ho venduto la casa famigliare e sento di avere compiuto l’atto che ha posto fine alla mia condizione di figlia, consegnandomi ineludibilmente non solo all’età adulta, ma direttamente alla fase conclusiva dell’esistenza. Aggiungo che, non avendo marito né prole, la condizione di figlia, per di più unica, è la sola che io conosca.

Ettore tace per qualche momento, poi commenta che non si smette mai del tutto di essere figli ma comprende come, mancando la sovrapposizione di ruoli differenti, si faccia più fatica ad affrancarsene.

“Dopo rivelazioni di questa portata, credo che un secondo calice di rosso farebbe bene a tutti e due”.

Non mi dispiace il suo modo garbato di distogliere entrambi da altre esternazioni premature cercando di recuperare la leggerezza e, in effetti, dobbiamo distrarci con  discorsi più lievi, se non vogliamo finire col cercare rifugio nel vino.

C’è una gradevole musica ad accompagnare il nostro conversare sempre più confidenziale e una vecchia canzone di Simon & Garfunkel dal titolo “America” ci offre un diversivo immediato. Parliamo dei viaggi che abbiamo fatto e di quelli che vorremmo fare. Mi accorgo di avere intrapreso le escursioni più impegnative sempre insieme al compagno del momento, cosicché i miei ricordi dei luoghi sono legati a quelli di una persona.

 Ettore dice che per la prossima estate aveva programmato un lungo giro negli States, ma ora ha deciso che aspetterà quattro anni, o almeno due. Tace e aspetta, evidentemente curioso della mia opinione su un argomento appena accennato, eppure piuttosto chiaro.

Tu, babbo, avresti senz’altro gradito e condiviso una simile osservazione.

“Capisco bene e sono d’accordo con te. Ma non è come ripudiare Tolstoj e Dostoevskij perché Putin ha invaso l’Ucraina?”

Riflette per un momento, prima di rispondere.

“No, non è la stessa cosa. Confesso di non essere mai stato un appassionato di letteratura russa ma riconosco il valore degli autori che hai citato e di molti altri. Invece, continuerò ad amare Steinbeck, Roth, Wallace, solo per dirne alcuni perchè l’elenco è lungo, credimi. Detto questo, se il senso del viaggio non è solo visitare dei luoghi ma anche entrare in contatto con usi e mentalità differenti da ciò che conosciamo, allora non mi interessa cercare di entrare in sintonia con un popolo che sta esprimendo uno dei momenti peggiori della sua storia. Ogni volta che mi dovesse capitare di interloquire con un americano mi chiederei se è democratico   o repubblicano, e la mia postura mentale ne sarebbe condizionata”.

Quest’ultima considerazione mi fa ridere ma sono completamente d’accordo, anche se replico che, coerentemente a questo modo di sentire, più che di ragionare, dovremmo cancellare dalla lista delle mete possibili molti altri Paesi. Anzi, forse sarebbe il caso di considerare di levare le tende anche dal nostro.

“Infatti ci sto pensando. Non ho più una compagna da diversi anni e sono abituato ad arrangiarmi, però  mi scoraggia l’idea di ricominciare da solo in un luogo sconosciuto. Senza amici, senza punti di riferimento.  Forse sono troppo vecchio per un cambiamento del genere”.

Un barista ci guarda sbadigliando, si è fatto davvero tardi.

Abbandoniamo il calore confortevole del locale rinfrancati dal cibo e dal vino, e anche un poco perplessi per l’insolita direzione verso la quale si è avviata la serata.

Riprendendo il cammino, dissertiamo con un certo fervore sulla scomparsa delle ideologie, sul declino delle democrazie occidentali e sul sorprendente disinteresse delle masse per la democrazia stessa in favore di regimi più o meno autoritari e liberticidi, il che ci porta al tentativo di definire il concetto di libertà sociale.

Non paghi, proviamo a interrogarci sulle ragioni per le quali una parte dell’umanità sia guidata da un istintivo desiderio di omologazione e l’altra persegua ostinatamente la difesa della propria originalità, reale o presunta che sia.

Ascoltandolo, mi figuro un giovane Ettore che canta “L’avvelenata” di Guccini mentre rattoppa amorevolmente un cane o un gatto e mi pare un ritratto del tutto probabile.

“Ettore, va bene diffidare delle certezze, ma forse stiamo masticando fin troppi dubbi. Comunque, io sono arrivata: abito qui”.

Siamo di nuovo bloccati da un indefinibile impaccio e ci guardiamo in silenzio, da una certa distanza e se Ombra, seduto compostamente tra di noi sapesse sbuffare, probabilmente lo farebbe. Invece, ci guarda e attende.

Credo che quest’uomo ti piacerebbe, caro babbo; di sicuro lo troveresti simpatico e interessante ed è ciò che penso anch’io. Tento di afferrare un embrione di emozione, una traccia di turbamento che assomiglia al desiderio. Non capisco se provo dell’attrazione o se vorrei avere diversi anni in meno per ritrovare quell’eccitazione:

invecchiando si perde fiducia nel proprio corpo e si prova pudore per i segni di cedimento che mostra. Dovrei decidere se voglio ancora questo tipo di intimità e non so neanche se potrei rinunciare alla solitudine.

“È  stato bello incontrarti, Marilena. Pensavo…hai da fare, domani pomeriggio?

“Io ho sempre da fare, ma posso liberarmi”

“A Palazzo Reale c’è una bella retrospettiva dedicata a Ugo Mulas. Durerà ancora pochi giorni, ti va di vederla?”

“Volentieri, avevo giusto in mente di andarci”.

Ci scambiamo i numeri di telefono e poi la buonanotte con una specie di goffo abbraccio. Respiro per qualche istante il suo odore e il suo calore e d’improvviso mi convinco che potrebbe essere bello, ma non stasera: non ho più quell’audacia.

Mentre mi preparo per andare a dormire, mi persuado che David Lynch apprezzerebbe questo finale che non reca alcuna conclusione, restando aperto a qualsiasi sviluppo come pure a nessuno.

Però, caro babbo, credo di avere bisogno di un nuovo posto dove trovare rifugio e conforto, e la certezza di un abbraccio esclusivo.

Ormai ci siamo detti tutto quello che restava da dirci; quindi, credo proprio che dovrei lasciarti andare.

…And if you have a minute, why don’t we go

Talk about it somewhere only we know?

This could be the end of everything

So why don’t we go somewhere only we know?

(“Somewhere only we know”, Lily Allen)

…E se hai un minuto, perché non andiamo

 a parlarne in qualche luogo che conosciamo solo noi?

Questa potrebbe essere la fine di ogni cosa

Quindi perché non andiamo in un posto che conosciamo solo noi?