LA SCINTILLA
15 aprile 1989: gruppi di studenti di Pechino si radunano in Piazza Tienammen reclamando riforme politiche ed economiche, protestando contro la corruzione e la censura. Potrebbero essere la scintilla che alimenta un incendio, sono incendiari perché non possono essere nient’altro, se vogliono appropriarsi del loro futuro.
Purtroppo, quando divampano le fiamme il vento non soffia sempre nella direzione auspicata.
Io e Nico partiremo per un viaggio senza sapere dove arriveremo. Abbiamo una meta approssimativa su una carta geografica, ma non è su una mappa che potremo calcolare la distanza percorsa, né se sarà sufficiente a portarci dove vorremmo. In fondo, ogni volta che si parte si cerca qualcosa. Una scintilla, magari.
Sono stata io a proporre un temporaneo distacco dalle attività e abitudini quotidiane ma sono certa che Nico avesse in mente la stessa cosa, solo che ho dato voce all’idea prima di lui. Abbiamo deciso di raggiungere le Marche, da Macerata scenderemo verso la costa; sarà un giro di pochi giorni perché non possiamo assentarci a lungo dal lavoro. Non ci preoccupiamo di prenotare, non abbiamo le idee chiare su dove fermarci ma è la metà di aprile e siamo ancora fuori stagione, dormiremo dove capita.
Ieri sera siamo andati a mangiare la pizza e ci siamo scambiati la buonanotte sulla porta di casa, dandoci appuntamento per le otto di domattina. C’è stata un’esitazione, una titubanza, poi ognuno si è ritirato in casa propria.
Io e Nico siamo vicini di pianerottolo e siamo una coppia, con una relazione stabile che dura da cinque anni ma non abitiamo insieme: viviamo esistenze adiacenti, divisi da un muro sottile.
Se la notte non riesco a dormire, posso udirlo tossire o alzarsi per andare in bagno e tirare lo sciacquone; mi succede anche di sorbirmi gli ululati gutturali con cui celebra un gol del Milan durante una partita. Piuttosto irritante, essendo io interista.
Lo sento quando alza le tapparelle al mattino presto ed esce poco dopo, chiudendo la porta blindata con quattro mandate. Nico ha un’edicola in via Canova che apre alle sei e mezza, prima di quell’ora deve aver sistemato quotidiani e riviste che l’incaricato della cooperativa gli molla davanti al chiosco. A volte me lo immagino mettersi in strada nel buio di un’alba invernale, nel tenue chiarore primaverile o nella provvisoria frescura delle prime ore di un mattino d’estate, a godersi le strade semivuote di Milano con gli ultimi irriducibili nottambuli e con i pochi mattinieri per scelta o per necessità.
È dunque una parete esile, quella che separa senza celare del tutto lo svolgersi delle nostre abitudini quotidiane, ma è pur sempre una barriera.
Risiedo in questo stabile vecchiotto in Piazzale Accursio dal ’79.
Terminate le medie, volli iscrivermi al Liceo Linguistico Internazionale con l’idea di fare l’interprete, ma dopo il diploma quella strada mi parve difficilmente percorribile e anche meno allettante di prima. Trascorsi quasi un anno accettando lavori di traduzione saltuari e malpagati, poi fu la volta di un impiego noioso che durò più di quanto avrei voluto, finché non scovai l’annuncio per un’offerta di lavoro pubblicato su un importante quotidiano nazionale. Partecipai alla selezione e fui assunta all’ufficio acquisti della Elizabeth Arden: una buona posizione con discrete possibilità di avanzamento, un ambiente vivace e piacevole. Avevo da poco compiuto ventisei anni il giorno in cui ottenni una promozione e un aumento di stipendio; sentii che era arrivato il momento di lasciare la confortevole sicurezza di una famiglia generosa e piuttosto permissiva.
Abitavamo nel quartiere di Taliedo e affrontai il discorso adducendo come ragione primaria la notevole distanza tra casa e l’ufficio, situato in Corso Sempione.
Tuttavia, la ragione principale era l’esigenza insopprimibile e non procrastinabile di conquistare l’indipendenza. Non stavo male con i miei genitori e le regole che tentavano di impormi erano sufficientemente lasche, ma io desideravo uno spazio esclusivamente mio che non fosse solo fisico, volevo prendermi la libertà e la conseguente responsabilità piena della mia esistenza, comprese la gestione economica e l’organizzazione delle giornate. Ricordo il loro immediato sconcerto: mia sorella era uscita di casa l’anno precedente perché si era sposata, io non avevo nemmeno un fidanzato fisso e non lo cercavo proprio.
In parte comprendevo i loro timori: in quegli anni a Milano si sparava quasi come a Chicago negli anni ’30, perché alle aggressioni con matrice politica si sommavano gli scontri tra famiglie malavitose, provenienti dal Sud dell’Italia, che si contendevano il territorio. Prostituzione e spaccio, ma anche bische: ai ricchi milanesi piaceva giocare forte, possibilmente con discrezione e senza perdere tempo per andare al Casinò a Sanremo o a Campione. Francis Turatello fu pronto a soddisfare tale esigenza con accoglienti case da gioco clandestine. Via Panizza, Corso Sempione e quella all’aperto, sotto un cavalcavia di via Palmanova, erano le più note ma l’offerta era assai più ampia; dopo il suo clamoroso arresto in piazzale Cordusio subentrò un suo sodale, il Tebano, ovvero Angelo Epaminonda. Turatello dettava ordini anche dal carcere, al Tebano a un certo punto non andò più bene e fu guerra. Sebbene i commenti dei milanesi sui caduti sul campo di quelle battaglie fosse un lapidario finché si ammazzano tra loro, facciano pure, la sventurata possibilità di intercettare la traiettoria di una delle tante pallottole, girando di notte, non poteva essere del tutto esclusa. Tuttavia, continuare a vivere con i miei genitori non avrebbe certo diminuito il rischio.
Comunque, devo dare loro atto che fecero uno sforzo lodevole per comprendere le mie ragioni; non credo affatto che le condividessero appieno ma le accettarono, appoggiandomi nei passi immediatamente successivi alla mia decisione.
Fu una collega a presentarmi i proprietari dell’appartamento che affittai, conoscenti di vecchia data della sua famiglia. I coniugi Bentivoglio, entrambi sulla sessantina, erano proprietari dei tre alloggi affacciati sul pianerottolo del terzo piano. Si trattava di unità di dimensioni ridotte e loro occupavano i locali derivanti dall’unificazione di due di questi; nel terzo si era trasferito prima di sposarsi il loro unico figlio ed era vuoto da un po’, sicché avevano deciso di affittarlo.
Traslocai il mese successivo, arredando il minuscolo bilocale in uno stile involontariamente originale, perché vi collocai la rustica mobilia che mamma e papà tenevano nella baita a Ponte di Legno, in affitto da anni e alla quale avevano deciso di rinunciare, dato che ormai ci andavano assai di rado. Recuperai tutto, anche la piccola cucina e fu papà, aiutato da un amico, a montare i mobili durante un fine settimana.
Il signor Luigino e la signora Ines erano vicini di casa affabili e discreti, mi offrivano caffè e un pezzo di torta ogni volta che portavo loro l’assegno mensile per la pigione. Quando finalmente mi successe di imbattermi nel più volte nominato figlio trentacinquenne, rimanemmo entrambi a guardarci, spiazzati dal medesimo stupore: io riconobbi l’edicolante simpatico e prestante dal quale mi fermavo regolarmente a comprare La Repubblica e l’Espresso, scendendo apposta prima dal tram per poi proseguire a piedi fino all’ufficio, lui la cliente chiacchierona e un poco sfacciata che lo appellava scherzosamente il mio giornalaio preferito. I primi giorni lo avevo anche guardato con interesse: era un bell’uomo moro con baffi importanti e occhi di un incredibile blu, spigliato e spiritoso con misura. Lo avevo subito depennato poiché portatore di fede all’anulare sinistro e non era il genere di storia a cui ambivo.
Quella sera era passato a salutare i genitori insieme alla moglie, una cosina bionda e graziosa dall’espressione vagamente corrucciata; si muoveva con la rigidezza di chi teme di stropicciare l’abito prima che sia finita la cerimonia. Pensai subito che non c’entrasse proprio niente con lui e immediatamente dopo conclusi che non erano affari miei. Comunque, la mia impressone doveva avere qualche fondamento, perché nell’83 si separarono e la signora Ines mi confidò che per loro era un sollievo, dopo quasi un decennio di continui litigi e riappacificazioni, e per fortuna non c’erano figli di mezzo. Egoisticamente, temetti che il figlio volesse tornare nel suo vecchio appartamento, ma non accadde. Fermandomi in edicola notai che non portava più la fede.
Per quanto si sforzasse di dissimulare, mi appariva rabbuiato e ripiegato su se stesso. Sebbene in maniera superficiale, mi spiaceva. Tuttavia, in quel periodo la mia intera disponibilità sentimentale ed emotiva era impegnata altrove.
Dopo un lungo periodo di nottate allegre e di albe avvistate talvolta con chi capitava e senza troppi ripensamenti, avevo incontrato la persona che in poche settimane era riuscita a scardinare qualunque progetto di vita precedente, benché non ne avessi uno così chiaro né tantomeno definitivo, e persino a destrutturare l’immagine di me che avevo allestito fino a quel momento.
Era entrata nella mia vita con l’energia brutalmente gioiosa di un vento improvviso che tutto scompiglia per ricomporre in un nuovo, magnifico disegno. Se ne era andata appena un anno dopo con l’incurante cattiveria di un uragano che lacera, sconquassa, eradica, lasciando un cumulo di macerie polverose.
Ero così contenta di partire, io e Nico da soli. Adesso invece ho paura, perché so che mi porterò dietro i miei fantasmi e non saprò come e dove nasconderli.
Sono terroristi, cellule dormienti che se ne stanno per anni acquattate da qualche parte, poi all’improvviso si manifestano con un atto violento. Potrebbe essere una scintilla contenibile, oppure generare un incendio.
Li chiamo fantasmi e terroristi, ma sarebbe più onesto dire semplicemente dubbi o, più poeticamente, polvere cacciata sotto il tappeto, un giorno dopo l’altro.
Mi viene in mente che io e te abbiamo fatto appena due lunghi viaggi in auto. Il primo è avvenuto nel periodo che mi piace definire la nostra “summer of love”, il secondo l’anno successivo, quando era tutto finito e tu già da un’altra parte, con il cuore e con la mente. Un inizio, una fine. Non abbiamo mai preso un treno, un aereo o una nave, ma neanche un tram, un autobus o la metro a Milano, la nostra storia si e mossa esclusivamente in auto. Non c’è stato tempo per altri viaggi, non ho potuto mettere da parte abbastanza ricordi; sarà per questo che mi tengo stretti i pochi che ho, dopo un primo e vano tentativo di brutale rimozione.
Smarrimento, angoscia, caos. Potrei riassumere così il periodo che seguì quell’abbandono. Rammento che tentai di ricongiungermi alla mia vita dal punto esatto in cui me ne ero discostata, ma non la trovavo più e non sapevo come inventarne una nuova. Disfeci amicizie, mutai giri e luoghi nell’intento di sottrarmi tanto al rimpianto quanto a un incontro casuale con la persona che dovevo abituarmi a considerare estranea.
Certe mattine, alle prime luci dell’alba, davanti a casa incocciavo nel signor Luigino che andava in edicola ad aiutare il figlio.
“Ciao Beatrice, già in giro a quest’ora?” mi salutava immancabilmente, benché il mio abbigliamento indicasse in maniera inequivocabile che ero ancora in giro, e il suo poteva essere un velato rimprovero. Non lo saprò mai, in ogni caso.
In una delle tante notti in cui mi rigiravo insonne nel letto, un inusuale baccano proveniente dall’appartamento adiacente mi allarmò. Poco dopo, l’urlo spaventoso della sirena di un’ambulanza, che si era spento proprio sotto casa, mi indusse ad affacciarmi sul pianerottolo. Vidi Nico, stravolto e approssimativamente rivestito: suo padre aveva avuto un infarto. Rimasi a fare compagnia alla signora Ines; si era accartocciata in un angolo come una povera bambola di stracci, nelle iridi blu come quelle del figlio la certezza di un dolore imminente e non affrontabile. Il signor Luigino non tornò più a casa, la moglie si smarrì in una perenne attesa che la portava ad aspettare il marito seduta fuori di casa, alle tre del mattino, e il figlio dovette risolversi a ricoverarla in una casa di riposo.
Il silenzio di quei locali mi immalinconiva, ma presto Nico vi traslocò.
Stavamo attraversando un’analoga stagione di turbolenza caratterizzata da vicende sentimentali brevi e scarsamente rilevanti; essendo vicini di casa ci accadeva di incappare nei provvisori comprimari. In quelle circostanze, ci scambiavamo un saluto frettoloso, indecisi tra l’imbarazzo e una forma di cameratesca complicità.
Poi, una sera in cui rincasavo carica di borse del supermercato, Nico mi aspettò mantenendo aperte le porte dell’ascensore. Io sono un poco claustrofobica e avrei preferito salire a piedi, ma per non essere scortese ringraziai e mi infilai nel piccolo vano con lo specchio sulla parete di fondo. Era di maggio o giugno e si preannunciava un temporale, il cielo bianco e viola squarciato da scariche saettanti di elettricità. L’ascensore si era appena mosso cigolando, in perfetta sincronia con il primo tuono crepitante mancò la luce, e la cabina si arrestò con un gemito sommesso.
“Io sono claustrofobica. Un po’. Abbastanza”, dissi brusca, cercando di dominare il panico irragionevole che iniziava a ottundermi il cervello. Nico non commentò e prese a dire stupidaggini a caso per distogliere la mia attenzione dal buio di quello spazio ristretto, a malapena bucato dal lieve bagliore rosso del pulsante di emergenza che aveva già premuto.
“Non moriremo qui dentro, presto tornerà la corrente, stai tranquilla”, disse a un certo punto, serio, e dovetti reprimere l’impulso fortissimo a rifugiarmi contro il suo petto, esigendo un abbraccio che potesse durare per sempre. Lui dovette intuirlo, perché smise di parlare e mi circondò le spalle con un braccio, in un gesto gentilmente protettivo.
L’elettricità fu ripristinata pochi istanti dopo e la luce ci colse in quel gesto confidenziale, nel quale indugiammo ancora un poco.
Più tardi, bussò alla mia porta chiedendomi se stessi bene; lo invitai a entrare e se ne andò che era già mattina.
La nostra relazione iniziò così, entrammo ognuno nella vita dell’altro senza chiedere il permesso e però senza accampare pretese, senza fare domande né esigere un progetto. Cionondimeno, il nostro rapporto escluse qualsiasi altra frequentazione fin dal primo momento; prendemmo a condividere gran parte del tempo libero, le vacanze, le amicizie e, infine, i parenti ma non la casa. Credo che diventammo formalmente una coppia il giorno in cui dissi a Nico che il mio contratto di affitto stava per scadere, quindi occorreva rinnovarlo.
“Ma non essere ridicola, non vorrai mica continuare a pagarmi l’affitto?”
Una storia normale, insomma (ammesso che sia normale non parlare mai dei propri sentimenti), solo che continuammo a rimanere vicini di casa. Fin dall’inizio ci affrontammo con una cortesia riguardosa e di certo benintenzionata, una forma di autocensura e di tolleranza per effetto delle quali non siamo stati del tutto franchi, ognuno esibendo una versione filtrata e parziale di sé.
Seguitammo a mantenere entrambi una riservatezza che era anche reticenza, assumendo che ciò che sapevamo l’uno dell’altra fosse bastevole e che sia il passato (non tanto i fatti, ma la loro elaborazione nel tempo e i cambiamenti indotti), sia i pensieri più spudoratamente intimi, non richiedessero di essere esternati.
All’inizio ritenni che fosse saggio rimanere prudenti, prima di raccontarsi e di desiderare una convivenza: avevamo bisogno di tempo, la nostra relazione doveva maturare. Poi, con il passare degli anni, smisi di pensarci; eppure, a volte mi viene il dubbio che la nostra storia non sia mai cresciuta abbastanza, incagliandosi in una fase intermedia di incompiutezza. Non abbiamo raggiunto un equilibrio, ci siamo imposti di fare gli equilibristi.
Un pensiero fastidiosamente appuntito, e inesorabile.
Ci frequentavamo da quasi due anni, una sera guardavamo un film a casa mia; il televisore si trova sulla parete che divide i nostri due alloggi.
“Volevo dire…” fece a un tratto Nico, ma le parole restavano incastrate da qualche parte, senza trovare la strada per manifestarsi.
“…cioè, basterebbe demolire questa parete per…insomma, potrebbe venir fuori un bell’appartamento”.
Se era un segnale dell’intenzione di imprimere una svolta alla nostra relazione, lo lasciai cadere. Coltivai la superficiale delusione per un ti amo che non gli avrei mai sentito pronunciare, al massimo un triste e impacciato ti voglio bene in qualche momento di grande trasporto. Come se con le dichiarazioni d’amore e di imperitura appartenenza fossi arrivata tanto lontana, ma era un magnifico pretesto per non indagare sulle ragioni vere per le quali mollai il discorso nel vuoto del mio silenzio, soffocando quella debole scintilla.
Stamattina abbiamo lasciato Milano sotto la pioggia battente, quando arriviamo sulle colline attorno a Macerata non piove, però tira un vento poderoso che sposta masse di nuvole nel cielo, liberando di tanto in tanto porzioni di sereno. È un paesaggio di una bellezza quieta e priva di asperità, vaste coltivazioni di colza in piena fioritura disegnano geometriche macchie giallo vivo sui morbidi declivi. Siamo passati attraverso borghi arroccati, tutti egualmente circondati da mura pressoché integre, ricchi di palazzi antichi e dimore signorili. Percorriamo pochi chilometri e siamo sulla costa, i colli ben visibili alle nostre spalle. Ci fermiamo in un paese di viuzze strette e piccoli slarghi, l’unica strada esageratamente larga è il corso principale pieno di negozi e di bar.
Anche la passeggiata lungomare è assai ampia, con l’acciottolato in porfido alternato a passerelle in pietra, una fila di palme a separare la strada dalla spiaggia. Vi si affaccia una sequenza di edifici bassi, i muri dipinti in toni dal giallo all’ocra ma anche rosso mattone o azzurro scuro con le persiane bianche. Al secondo e ultimo piano di uno di questi c’è un’affittacamere e decidiamo di fermarci un paio di notti.
Ci sistemiamo, facciamo un giro in paese e torniamo sul lungomare. I gestori dei piccoli ristoranti sula spiaggia, che di solito includono il tratto di arenile antistante, osservano sconsolati i mucchi di ramaglie scaraventati a riva da una burrasca perdurante da diversi giorni. Tra poco avrà inizio una nuova stagione balneare; grossi sacchi di sabbia giacciono accumulati a ridosso della strada, dopo la pulizia serviranno per reintegrare il manto di rena.
Ci sentiamo frastornati e leggeri, come sempre capita quando si arriva in un luogo di vacanza e si calca uno scenario diverso da quello abituale.
Camminiamo sulla spiaggia, disertata dagli indigeni che in questo tardo pomeriggio di vento freddo, tinto di grigio e di zolfo, preferiscono il corso centrale, bene illuminato e certo più riparato dall’aria. I turisti sono ancora pochi e anch’essi rintanati nei vari bar per l’aperitivo.
Sono ferma da un po’ vicino a una barchetta capovolta; il mare è una creatura irrequieta e possente, emana un odore di salmastro schietto e pungente. Il vento che soffia dal largo è talmente forte che fatico a tenere una posizione salda, i capelli strapazzati in tutte le direzioni. Mi lascio avvolgere dal fragore, è un suono ancestrale modulato su di una sola nota scura sempre uguale, una solenne linea di basso da organo Hammond, accompagnata dal fruscio delle onde che lambiscono schiumose l’arenile, ultima declinazione di flutti e marosi gonfiati dalla burrasca in mare aperto. Questo scenario epico mostra un presagio spaventosamente esatto, e perciò tranquillizzante.
Moby Dick ne uscirà sempre vincente, mio povero Capitano Achab.
Ci mettiamo alla ricerca di un ristorante; molti sono ancora chiusi, riapriranno solo alla fine della settimana. Troviamo un posto che da fuori pare accettabile; invece, ci troviamo in una stanza piccola, spoglia e proprio brutta: tavoli e sedie di plastica con tovagliette e tovaglioli di carta sponsorizzati da un produttore di birra. Ci scambiamo un’occhiata dubbiosa, ma una ragazza dalla faccia scontenta ci viene subito incontro e girare sui tacchi parrebbe davvero scortese, così ci accomodiamo. Siamo appiccicati a una lunga fila di tavoli affiancati sul fondo della saletta, per ora liberi ma sicuramente prenotati. Sulla parete alle mie spalle un grosso televisore trasmette un evento sportivo a un volume un po’ troppo alto.
Stiamo mangiando (benissimo, a dispetto della nostra diffidenza) quando entra una comitiva chiassosa di uomini bassi e tarchiati; parlano con una cadenza corta e rapida di parole mozze che potrebbe essere campano e m’immagino che lavorino in un grosso cantiere che abbiamo visto in paese.
Si intrufolano nello stretto passaggio tra il nostro tavolo, allineato a un paio d’altri ugualmente occupati, e la fila a loro riservata; c’è un po’ di confusione, come sempre accade in queste circostanze. Uno di loro è fermo proprio accanto a me e mentre si sfila il giubbotto si porta dietro anche una parte della maglia, scoprendo un pezzo di schiena muscolosa color biscotto. Nico segue il programma televisivo con un certo interesse, io poso la forchetta.
Il tizio svetta sui compagni, brevilinei e tracagnotti, con una ventina di centimetri di distacco; i capelli neri e ondulati sono raccolti sulla nuca in una specie di grossa crocchia. Va a sedersi a capotavola, ce l’ho proprio di fronte ed è abbastanza vicino perché possa vederlo bene. Noto che ha tratti mediorientali ma la carnagione non è olivastra, ha piuttosto il tono caffelatte di certi creoli . Il volto squadrato dagli zigomi pronunciati è ombreggiato da un accenno di barba che ne ammorbidisce i contorni e i grandi occhi color nocciola chiaro, dal taglio a mandorla, sono posti in risalto dalle sopracciglia scure. Il lobo dell’orecchio destro è infilzato da una serie di piccoli orecchini, indossa una sottile maglietta bianca a maniche lunghe che fascia le spalle larghe e il torace ampio. Sembra il risultato perfetto di un singolare connubio di etnie ed è oltraggiosamente bello, di una bellezza disarmante; irradia la vitalità sensuale di un giovane lupo e ha lo sguardo vigile di un predatore votato alla sopravvivenza.
L’uomo seduto alla sua destra (sembra il più anziano della combriccola ed esprime una certa autorevolezza, deve essere il capo cantiere) ogni tanto gli si rivolge in un inglese un poco pasticciato, lui annuisce e mormora qualcosa, sorride scoprendo denti bianchi dai canini aguzzi che rendono ancora più crudele la sua avvenenza.
Non riesco a levargli gli occhi di dosso, Nico gli volge le spalle e nemmeno lo ha visto; lancio in aria qualche parola a caso solo per accertarmi della sua disattenzione.
Il giovane uomo (direi che non ha ancora trent’anni) non sembra affatto impacciato da un aspetto tanto vistoso, eppure mostra un atteggiamento prudentemente defilato. Mi chiedo da dove provenga e cosa abbia prodotto tale comportamento.
D’improvviso, mi lascio portare via da un languore antico e noto.
Ora sembra essersi accorto della mia sfacciataggine, intercetta il mio sguardo e lo afferra, rispondendo con uno dei suoi sorrisi spietati.
Mi alzo e vado in bagno; quando esco lo trovo lì, nello spazio angusto dell’antibagno, tra due lavandini e le porte contrassegnate dai simboli usati per indicare maschio e femmina.
“Sorry”, dice inalberando un’espressione innocente, mentre mi sta bloccando il passaggio con la sua presenza ingombrante ed è talmente vicino che ne percepisco l’odore vagamente muschiato.
C’è un pensiero fuggiasco che prende forma nella mia mente ed è talmente cristallino che per un attimo temo che possa essere visibile, parole scritte nella nuvola di un fumetto.
Ti voglio solo per una notte e senza conoscere il tuo nome né la tua storia, che importano i nomi e il passato o il futuro, solo un magnifico e provvisorio presente, ti chiamerò amore anche se non è vero.
Invece, gli poso le mani a palmi aperti sul torace e lo allontano con dolcezza, mormorando a mia volta “…sorry”, e sono davvero desolata.
In un altro tempo, un altro spazio e un’altra vita, che pure mi appartiene, ce ne saremmo andati insieme nella notte tenendoci per mano, lo avrei amato con sincero disinteresse; per qualche ora ci saremmo sfiorati, presi e lasciati andare via, paghi e grati per un altro ricordo da archiviare nell’apposito scomparto della memoria, quello riservato alle stelle cadenti.
Lui non può saperlo ma per me non è più tempo di accogliere certe meteore perfette: quel tempo è durato finché ha saputo poggiarsi su di un’incosciente leggerezza; è finito per non deviare in triste tentativo di sfuggire alla solitudine.
Torno al tavolo e dopo qualche minuto esce anche lui dal bagno; passando mi sfiora la schiena con una carezza lieve che è un addio.
Poco dopo, io e Nico paghiamo e lasciamo il locale. Mi allontano senza voltarmi a guardarlo, portandomi appresso un inopportuno rammarico per qualcosa di tralasciato.
Guardo Nico di soppiatto e con un colpevole imbarazzo. Mi sento come se lo avessi tradito ed è così, avrei voluto farlo, potrei farlo. Non lo farò, né ora né in seguito, per un corretto senso di lealtà e di rispetto. Principii senz’altro nobili, però certi amori non ne hanno bisogno, non lasciano spazio al desiderio per altri, semplicemente.
Commentiamo la cena, decisamente superiore alle nostre aspettative, facciamo programmi per l’indomani, il tempo dovrebbe migliorare.
Prima di ritirarci, sostiamo di nuovo davanti al mare; il vento è sempre sostenuto. Nel buio, malamente rischiarato dai lampioni sulla passeggiata, la massa liquida agitata da tanta turbolenza appare oscuramente maestosa.
Era incominciata davanti a un mare e finita dinanzi a un altro mare. Il mare conosceva e racchiudeva tutta quella storia al pari di altri luoghi, ma non era stato scenario innocente e neutrale bensì elemento partecipe, avendo la responsabilità del prologo e dell’epilogo. Dunque, ho litigato con il mare, da allora non ho più voluto averci a che fare. Ho preferito le città d’arte, i laghi, le montagne. Una scemenza, lo ammetto, un goffo tentativo di dirottare dolore e risentimento un poco più lontano. E ora eccomi qui, incantata e commossa al cospetto della possenza di quest’acqua tenebrosa nella quale riconosco qualcosa di familiare e amato, e mi chiedo come io abbia potuto pensare di farne a meno. Adesso sono pronta per una riconciliazione.
Nico è rimasto a osservare la mia immota contemplazione; percepisce la mia distanza senza osare un avvicinamento. Probabilmente sta pensando che sembro una che non ha mai visto il mare mosso, e che sarà mai, ma a un certo punto si pone alle mie spalle e mi cinge in un abbraccio rotondo e amorevolmente possessivo.
È uno di quei rari momenti in cui penso che stiamo per avvicinarci davvero; forse stanotte, nella piccola camera dai muri celesti, incalzati dal suono ritmico del mare burrascoso scioglieremo ogni riserva, dissiperemo qualsiasi ombra e saremo uno di fronte all’altra, esausti e inermi senza timori.
Poco dopo ce ne stiamo sdraiati nello stesso letto a respirare in silenzio, ciascuno appartato nei propri pensieri e non ancora pronto a condividerli, prigioniero delle proprie difese e delle sistematiche omissioni. Allora sono colpita da una considerazione ovvia e stupefacente: ovunque andiamo e qualsiasi cosa facciamo, siamo sempre separati dallo stesso muro sottile che divide i nostri alloggi. Possiamo avvertire la reciproca presenza e ne siamo confortati, ma non riusciamo a toccarci.
Occorrerebbe uno scostamento antropologico per abbattere quella barriera e concedersi un momento di verità, mettersi a nudo e rivelarsi senza temere di essere respinti né di perdersi. Abbiamo soffocato ogni scintilla, non siamo stati capaci di essere incendiari.
Poteva essere una grande storia d’amore e c’è mancato proprio poco, appena una scintilla più audace delle altre. Che peccato.
Mi ritraggo in un sonno scontento che è una forma di protesta imprecisa, un andarsene via sbattendo la porta senza spiegare le ragioni di tanta irritazione. Mi risveglio bruscamente che fuori è ancora buio, disturbata dal silenzio. Non si sente più il suono grave del mare né il grido del vento, la burrasca deve essere cessata.
L’assenza improvvisa di tutto quel rumoreggiare maestoso produce un dispiacere luminescente e colloso come la scia delle lumache sull’asfalto dopo la pioggia, sottile e tenace. Mi riaddormento quando dalle persiane filtra il chiarore dell’alba.
La mattinata si presenta limpida, il cielo blu senza neppure qualche innocuo cirro a romperne la monocromia. Ho fretta di uscire, mentre Nico finisce di prepararsi andrò ad aspettarlo sulla spiaggia.
Qualche giovane volenteroso corre sul lungomare, è anche l’ora dell’uscita mattutina dei cani, accompagnati da fieri e affezionati proprietari che si scambiano saluti, i più anziani raggruppati sotto qualche palma, seduti sul basso muretto che delimita la spiaggia.
Il sole spalma una striscia obliqua di argento liquido sulla superficie del mare pacificato, l’aria fresca è mossa da una brezza carezzevole. Qualche barca è appena tornata dalla pesca notturna, gli uomini si lanciano cenni di saluto brevi e si danno da fare con il pescato, mi arrivano piccoli refoli di odore di alghe e salmastro.
Volgo le spalle a tanta insopportabile bellezza e mi chiedo con quanta distrazione debba imparare a difendersi, la gente che abita in luoghi della terra ancora capaci di stordire e commuovere con la loro innocente magnificenza; forse alla fine a tutto ci si abitua, diventandone immuni.
Scorgo Nico che finalmente sta arrivando; cammina con la solita andatura tranquilla e determinata di chi impara subito le strade nuove e sa sempre quale direzione prendere, mentre io di norma esibisco un passo spavaldo ma tiro a indovinare e il più delle volte mi perdo.
Tiene una mano affondata nella tasca del giubbotto, con l’altra regge un sacchetto bianco e procede buttando avanti i piedi con le punte un poco rivolte verso l’esterno, benché non abbia i piedi piatti.
Penso che potrei individuarlo anche in mezzo a una folla di persone tutte rassomiglianti, guidata da un istinto inesorabilmente esatto; allora mi domando che altro dovrei sapere di quest’uomo per conoscerlo e riconoscerlo sempre. Posso amarlo seguitando a ignorare certi angoli ancora bui, mentre continuerò a custodire, relegandoli in una zona di non interferenza, i miei segreti e i miei fantasmi
Mi raggiunge rivolgendomi un sorriso che è solo per me, sventola sotto il mio naso il sacchetto, che sprigiona un profumo caldo e dolce e mi trascina verso la barchetta capovolta.
“Ho pensato che ti sarebbe piaciuto fare colazione qui”.
Le sfoglie sono fragranti e zuccherose, il miele ancora tiepido cola sul mento. Il sole brilla sull’acqua leggermente increspata, accendendo tante piccole scintille.
Vincerai sempre tu, Moby Dick, apparirai nuovamente al mio orizzonte come una minaccia seducente, ma stavolta sono io che ho deciso di lasciarti andare.
…Nothing more could happen
Nothing we can’t shake
Oh, we’re absolute beginners
With nothing much at stake
As long as you’re still smiling
There’s nothing more I need…
(“Absolute beginners”, David Bowie)
…Nient’altro potrebbe accadere
Niente che non non possiamo scrollarci di dosso
Oh, siamo principianti assoluti
Senza più molto in gioco
Fino a quando continuerai a sorridere
Non avrò bisogno di nient’altro…