LA GEOMETRIA DEI SENTIMENTI
6 aprile 2009, le 3,32 del mattino. O della notte, la percezione del tempo può essere un dato variabile. Un boato, un tuono, un fragore, un ruggito; anche in questo caso la definizione dipende da un insieme di fattori differenti. Tremava tutto, e poi è venuto giù tutto in una fila di lunghissimi minuti che erano ore, giorni, settimane, mesi, anni.
Dopo, polvere e macerie, vite troncate tra un passato prossimo non più riproducibile e un futuro difficile da immaginare. La condizione di sopravvissuti è complicata e dolorosa.
Nelle settimane seguenti, a L’Aquila si scavava tra i detriti, si aggiornava la lista dei decessi, si organizzavano raccolte di fondi, si chiacchierava di responsabilità, di soluzioni abitative per gli sfollati e di ricostruzione, dissertando sull’attendibilità dei modelli matematici su cui si fondano le previsioni degli eventi naturali.
Ma quanto può essere prevedibile un terremoto e con quale precisione temporale?
E, invece, quanto siamo abili a cogliere e leggere i presagi, i segni di una sequenza di accadimenti imminenti capaci di mutare il nostro personale ordine delle cose, quasi come un terremoto di magnitudo 6.1?
Oggi, a distanza di dieci anni dal sisma, ci sono dati certi sui deceduti, i feriti e gli sfollati, alcuni dei quali hanno dovuto adeguarsi a una precarietà divenuta stabile. La ricostruzione procede con tempi incerti, attorno a un centro storico riportato a nuova bellezza vaste zone periferiche e numerose frazioni attendono una rinascita che appare sempre più improbabile.
Mi piace guidare nelle ore di mezzo, quei periodi di tregua durante i quali le persone si fermano per pranzare o cenare e il traffico diventa più scorrevole. Mantengo l’attenzione sulla strada, dato che l’obiettivo imprescindibile è giungere a destinazione senza incidenti, ma i gesti necessari alla conduzione del veicolo sono ormai automatici e certe reazioni di salvaguardia del tutto istintive (non credo dipendano da capacità di calcolo o di ragionamento troppo veloci per essere consapevoli, ma chissà), dunque la mente è in parte libera di rovistare nel mucchio dei pensieri orfani e dei ricordi tronchi, cercando di ridare loro una struttura riconoscibile.
Da Milano a Cannobio non è un viaggio lungo, dovrei raggiungere l’estremità del lago Maggiore confinante con la Svizzera intorno alle due e trovarmi con Teresa a casa sua, dove sono già stata e dall’ultima volta è trascorso più tempo di quanto avrei voluto. Non ci siamo dette un granché al telefono ma Teresa ha capito che, dopo diversi anni, ho bisogno di lei e ha detto solo “ti aspetto”.
Stamattina ho infilato cose in una borsa con lodevole raziocinio, prevedendo un’assenza di qualche giorno della quale avevo già informato i colleghi avvocati dello studio di cui sono socia. Sono uscita osservando con un’inspiegabile sensazione di estraneità l’appartamento in Corso San Gottardo, per il quale ho finito di pagare il mutuo e che ho adattato un pezzo per volta al mio gusto e alle mie esigenze, fino a farlo diventare casa. Mi domando se potrò mai percepirlo di nuovo come rifugio inviolabile, com’era prima che il mio spazio fosse disarticolato e la mia intimità corrotta da altre presenze a causa di una serie di eventi fortuiti, difficilmente ipotizzabili. Probabilmente mi sto facendo la domanda sbagliata e ciò che davvero vorrei è ritrovare qualcosa di più intimamente mio, che temo di avere smarrito.
Per quanto io vada indietro con la memoria, non rammento nessuna “amica del cuore”, neppure rivedendomi bambina o ragazzina. Ho sempre avuto la tendenza a ritrarmi dalle relazioni esclusive, dal dirsi tutto e fare tutto insieme che sovente appartiene alle amicizie infantili e adolescenziali. Sono piuttosto socievole ma i numerosi rapporti che ho allacciato sono rimasti incasellati in una fase del mio percorso e delimitati da zone di riserbo non violabili. Per lo più, si sono spenti senza strappi per il disinteresse nel quale li ho relegati ogni volta che ho cambiato ambiente, frequentazioni e prospettiva.
Anche nelle relazioni amorose l’attitudine è stata la medesima, benché non abbia mai escluso di poter incontrare un uomo con il quale aspirare a un futuro condiviso a lunga scadenza, perlomeno nelle intenzioni. Per essere sincera, è capitato ma ho innescato una sorta di corto circuito, giacché coloro con i quali avrei azzardato un programma di ampio respiro erano troppo simili a me, ovvero poco propensi a prendersi tale impegno o, in ogni caso, non con me. Sono anche gli uomini che ho amato di più, ovviamente. Comunque, dopo ogni strambata, e l’esito di alcune curve in favore di vento fu per me assai doloroso, c’eravamo sempre io e Teresa (le cui vicende erano anche più arruffate delle mie), pronte a confortarci, a cercare ragioni, fornire giustificazioni e perdonare grossolani errori di valutazione.
Però, Teresa è una storia differente. Non saprei dire in che senso, non ci siamo mai curate di tracciare il perimetro del sentimento che ci lega da oltre quarant’anni o di definirne le geometrie, angoli e triangoli, cerchi, rette coincidenti e linee parallele destinate a svolgersi affiancate, senza incontrarsi.
Non è mai stato rilevante né credo che lo diverrà adesso, qualunque cosa succeda.
Conobbi Teresa nell’autunno del ’77, all’inizio del primo anno alla facoltà di giurisprudenza a Pavia. Allora abitavo a Lambrate; l’appartamento nella palazzina in via Bertolazzi era stato acquistato all’asta per pochi soldi da mio padre negli anni ’50. Quando mi iscrissi all’università a Pavia, in casa con noi viveva anche mia sorella Miriam, secondo anno al Politecnico nel corso di Ingegneria gestionale, fidanzata, incinta e insopportabilmente noiosa. I futuri consuoceri si erano assunti l’impegno di mantenere i rispettivi figli fino a quando non si fossero trovati un lavoro e sposati, dopo la laurea. In quanto al nascituro, avrebbero condiviso equamente oneri e onori. D’altronde, i due capifamiglia erano commercialisti e soci, oltre che amici.
Per poter studiare in pace e sottrarmi a un clima variabile tra la rassegnazione e l’isteria, avevo affittato un appartamento di due stanze a Garlasco. Costava meno che a Pavia, anche se i miei sarebbero stati disposti a spendere un po’ di più. A me piaceva quella posizione decentrata e potevo raggiungere comodamente l’Università con il pullman o con la mia 500 di terza mano, che un carrozziere fantasioso aveva ridipinto con una sgargiante vernice giallo limone, visibile persino nelle notti di nebbia.
Incontravo Teresa ai corsi e poi la vedevo la sera in un bar del centro frequentato da molti universitari, dove stava dietro il banco a lavorare.
I ragazzi la guardavano con palese concupiscenza, spiazzati tanto dal suo approccio spigliato quanto dal sarcasmo sottile e sorridente che non sempre coglievano al volo, facendo la figura dei cretini.
Teresa non era bella, almeno non secondo i canoni tradizionale e nemmeno considerando i modelli estetici di quegli anni, era qualcosa di più e di diverso: possedeva un’avvenenza generata da contrasti e disarmonie morfologiche, ma anche da una gestualità pacata fino all’indolenza, turbata da segnali inequivocabili di costante agguato. C’era in lei qualcosa di sottilmente selvatico, un’aggressività latente capace di manifestarsi da un momento all’altro.
Alta e robusta, fianchi stretti e gambe muscolose dalle caviglie sorprendentemente fini, spalle ampie e un seno voluminoso e morbido, in disaccordo con la figura androgina. Il volto mostrava un ovale dalle guance tonde, naso dritto e breve e larghi occhi del colore dell’ambra, la bocca generosa dalle labbra piene sottolineata dal rossetto scuro.
Spesso portava i lunghi capelli castani, ondulati e un poco crespi, raccolti sulla nuca in un’acconciatura molle e disordinata che poteva stare bene solo a lei.
Teresa aveva il passo lungo ed elastico, eppure non sembrava avere mai fretta di andare da qualche parte, forte della certezza che sarebbe sempre arrivata in tempo.
Di sicuro, era una che aveva imparato presto a maneggiare la propria insopprimibile sensualità e a difendersene, quando era il caso.
Provai da subito simpatia e ammirazione per lei. Milanese come me, era la seconda di quattro figli e abitava alla Comasina, periferia a nord della città caratterizzata da un’edilizia in gran parte recente, fatta di caseggiati popolari infilati dentro dedali di stradette separate da aiuole e alberelli frondosi. Non ricordo di chi fu l’idea, ma prendemmo a trovarci di tanto in tanto da me per studiare insieme. Un giorno mi raccontò che dopo il diploma in ragioneria aveva potuto aspirare alla laurea solo perché aveva vinto una borsa di studio, ma dalla sua famiglia non poteva aspettarsi alcun aiuto; così, per mantenersi e pagare l’affitto per la stanza che divideva con altre due ragazze, la sera lavorava al bar.
“Per la vita sociale è piuttosto frustrante, ma in realtà l’aspetto più fastidioso è la coabitazione coatta con due tipe insignificanti che hanno un’idea evidentemente approssimativa dell’igiene personale. Due zecche che stanno sempre appiccicate l’una all’altra, in un rapporto patologicamente simbiotico”.
Scoppiai a ridere e replicai, senza pensarci affatto, quasi che fosse un esito naturale e inevitabile:
“Vieni a stare da me. L’affitto lo pagano i miei, non c’è bisogno che facciamo a metà, davvero. E io mi lavo molto, credimi”.
Ero mossa dal desiderio istintivo di aiutarla come potevo, ma di certo c’era anche la voglia di avvicinare una persona che mi incuriosiva e affascinava, supponendo che racchiudesse un mistero che intendevo scoprire. Col tempo, avrei capito che Teresa non aveva segreti, ma piuttosto verità nascoste appena sotto la superfice della sua esuberanza.
Lei rifletté per qualche istante, soppesandomi con gli occhi stretti di chi cerca di leggere tra le righe.
“Va bene, però facciamo così: se arriverò alla laurea, un giorno ti restituirò la metà dell’affitto di tutto il periodo, senza interessi. Per adesso, grazie per il prestito, mi fa proprio comodo “.
Non ci rendemmo nemmeno conto della proiezione temporale di quel patto che suggellammo al banco del bar con due calici di bianco a buon mercato, di quelli che fanno venire subito l’acidità di stomaco, della quale a diciannove anni non ci si preoccupa affatto.
L’alloggio di Garlasco disponeva di uno stretto cucinino, un bagno, una stanza da letto e un salotto dotato di divano letto che divenne la camera di Teresa. Nonostante la ristrettezza dell’ambiente riuscivamo a non darci fastidio. Eravamo guidate da una specie di sesto senso che suggeriva strategie per rendersi invisibili quando percepivamo l’intolleranza a qualsiasi interferenza da parte dell’altra, ma per lo più apprezzavamo la reciproca compagnia, trovando un equilibrio spontaneo. Studiavamo spesso insieme, Teresa aveva una mente brillante e deduttiva, poneva domande chiare ed esigeva risposte puntuali, scomponeva, analizzava e verificava ogni ipotesi fino a trovare quella più coincidente con una possibile verità, sulla base di prove fattuali. Voleva diventare penalista e io me la raffiguravo impegnata in veementi requisitorie da pubblico ministero.
“Ah no, io voglio difendere i disgraziati, accusarli è troppo facile. Prendi Vallanzasca, per esempio: Vorrei guardarlo negli occhi e vedere cosa c’è dietro, sapere come è arrivato a rompere ogni patto con la società. Lo difenderei anche se non è difendibile e sai perché? Perché penso che quelli davvero marci siano pochi, gli altri sbagliano per mille ragioni, poi li guasta irrimediabilmente la galera”.
Abitavo a Lambrate e via Porpora, dove il bandito in questione era nato e cresciuto, si trovava nei paraggi di casa mia (i giornalisti definirono lui e i suoi complici “la banda della Comasina”, quartiere con il quale c’entravano poco e quell’attribuzione rionale errata nacque forse dal fatto che alcuni membri abitavano in Comasina) ed ero convinta che, invece, quel ragazzo fosse proprio sbagliato, se non guasto. Comunque, mi sembrava una teoria oppugnabile e ne discutevamo sovente, senza trovare una convergenza. Disquisivamo su molto altro, Teresa era potenzialmente interessata a qualunque argomento, una ficcanaso apolide e priva di pregiudizi. Negli anni successivi ebbi modo di osservare la sua singolare propensione a buttarsi a capofitto in ogni esperienza, assumendone consapevolmente i rischi e ritrovando sempre una via d’uscita, anche nei labirinti più oscuri. Mi persuasi che l’avrebbe sempre fatta franca in ogni circostanza, perché poteva scavalcare le macerie dei suoi disastri senza inciampare nei rimpianti o nell’autocommiserazione; Teresa racchiudeva in sé un nucleo inscalfibile destinato a preservarsi intatto.
Io non ho mai avuto altrettanta fiducia nella solidità del mio equilibrio, sviluppando una certa mania di controllo rafforzata dall’esito infelice delle rare vicende in cui mi sono disarmata, assecondando la passione e i sentimenti.
Durante il primo anno studiammo come matte senza concederci distrazioni, con l’obiettivo inderogabile di laurearci evitando di andare fuori corso. In quel tempo di rigorosa astinenza (con qualche trascurabile eccezione) parlavamo molto di sesso, probabilmente per compensarne la mancanza. La mia amica apprezzava tutto ciò che procurava piacere a ognuno dei cinque sensi e dunque anche il buon cibo. Cucinava molto bene, ma io attraversavo una fase di ossessione per la magrezza e non mangiavo quasi nulla di ciò che preparava, con suo grande disappunto. A volte restavo incantata dalla lentezza con la quale portava alla bocca le pietanze, assaporando con gusto ogni boccone in un rituale di involontaria voluttà.
In tutto quel teorizzare sul sesso e anche sulle relazioni, scoprimmo che ci accomunava la riluttanza a orbitare attorno a un rapporto affettivo e, più in generale, l’insofferenza verso i legami esclusivi. Cionondimeno, in seguito sarebbe capitato a entrambe di derogare da tanta fermezza, di deragliare, capitolare e ruzzolare rovinosamente senza che ciò mutasse le nostre convinzioni, semmai rafforzandole. Però, mentre per Teresa il sesso era innanzitutto una consuetudine piacevole e necessaria, io non riuscivo a praticarlo con la stessa disinvoltura, avevo bisogno dell’alibi della ricerca della storia, del tentativo di costruire un intreccio affettivo, anche senza arrivare all’innamoramento. Era ciò che Teresa definiva “un approccio borghese” alla sessualità, ma io non mi offendevo.
Negli ultimi mesi ho ripensato sovente alla nostra spensierata coabitazione nella piccola casa vicina alla sproporzionata discoteca Le Rotonde, che aveva sottratto Garlasco all’oblio fin dagli anni ’60; scorgevamo le lame luminescenti sparate nella notte piatta sopra le risaie della Lomellina dai suoi celebri fari. Rivedo Teresa che al mattino presto gira per casa in mutande e reggiseno, con quel corpo grande, forte e impudico che amavo guardare (o amavo e basta), mentre lei invidiava le mie gambe magre e i capelli chiari e lisci. Mi pare di risentire la sua risata, che nasceva sommessa dal diaframma e risalendo si apriva in un suono di gola, tintinnante e mai sguaiato. Aveva una voce dal timbro fondo e limpido, una voce che si prestava al racconto e all’interpretazione, con le pause e le accelerazioni giuste.
Verso la fine del secondo semestre, in un sabato sera in cui Teresa non lavorava al bar andammo a Milano al Divina, discoteca in via Molino delle Armi già nota come Bang Bang e all’epoca frequentata da gente che la pistola ce l’aveva e sparava sul serio. Trovavo quel posto pacchiano ma piaceva a molti miei amici milanesi di quel periodo e allora mi aggregavo. Fu in quella circostanza che Teresa conobbe un quarantenne molto fascinoso e dichiaratamente sposato che le disse di fare il rappresentante di preziosi per un laboratorio orafo di Valenza. Girava frequentemente per lavoro e questo gli consentiva un’estesa libertà di movimenti. Così, di tanto in tanto la mia amica scompariva per un paio di giorni; ogni volta tornava con qualche costoso regalo perché Tiziano era molto generoso e anche molto infatuato, evidentemente. Abiti, borse e stivali e poi gioielli, doni che talvolta Teresa rivendeva ad alcune compagne di corso.
Al Divina gli amici di Tiziano lo chiamavano il Barone e non credo si riferissero a dei nobili natali, benché io ignori tuttora le ragioni del soprannome. Di sicuro, anche considerando la sua professione, gli girava per le tasche un po’ troppo denaro. Quando veniva in casa a Garlasco a prendere Teresa non potevo fare a meno di notare il suo bell’aspetto e l’eleganza priva di ostentazione, ma nei modi misurati e cortesi, come pure negli effluvi della sua raffinata colonia (una cosa di Jean Patou, credo) fiutavo una brutalità accuratamente nascosta, la traccia della naturale propensione alla prevaricazione. Eppure, al cospetto di Teresa appariva serenamente inerme, persino intimorito e la dolcezza con la quale le si rivolgeva era genuina.
Un venerdì sera si presentò con una specie di mantella in visone chiaro; Teresa se la posò sulle spalle, la carezzò con il tocco delicato che si riserverebbe a un animale con il quale non si abbia dimestichezza; poi gli tirò in faccia uno sguardo cattivo, le iridi dorate e improvvisamente ostili:
“Barone, non continuare a spendere per farmi regali costosi che non mi servono, Io ho bisogno di soldi”.
Lui non batté ciglio, estrasse dalla tasca un portafoglio rigonfio di banconote (vidi allora affiorare il cafone acquattato nel suo animo) e le posò un bacio sulla fronte.
“E perché non me l’hai detto prima, amore mio?”
Li salutai frettolosamente e andai a chiudermi in camera, aspettando che uscissero. Ero sconcertata, le parole di Teresa aprivano una falla nell’idea che mi ero fatta di lei, scalfivano l’immagine romanticamente eroica che le avevo appiccicato addosso. Nemmeno mi rendevo conto di farle torto, volendo riconoscerla in un modello che io potessi trovare moralmente accettabile e rigettando il resto, senza provare a comprenderlo.
Trascorsi il sabato dai miei; nel frattempo era nato il figlio di mia sorella e la casa era un caotico campo di battaglia, con i miei esausti genitori affannati attorno a un marmocchio piagnucoloso, mentre Miriam giocava con le sue metaforiche bambole. La sera uscii con alcuni amici e non tornai a dormire, trovando assai più piacevole la compagnia di uno sconosciuto, con buone probabilità di restare tale, di quella della mia dissestata famiglia. Ero certa che dopo un incontro senza nessuna aspettativa che non fosse il sesso mi sarei sentita sola e triste. Non fu così; tornai a Garlasco portandomi addosso l’allegria fanciullesca di chi ha fatto qualcosa di riprovevole di cui nessuno si è accorto, e si è proprio divertito.
Teresa rincasò domenica nel tardo pomeriggio. Ci salutammo e per un po’ ci girammo attorno con prudente circospezione, ma lei non amava lasciare le cose in sospeso.
“Senti, so cosa stai pensando di questa storia con il Barone. So anche che c’è qualcosa di poco chiaro ma sono affari suoi. Mi piace, non gli ho mai detto di amarlo e non gli ho promesso fedeltà. Stiamo insieme quando ne abbiamo voglia, tutto qui. Su questo siamo stati molto espliciti; se poi gli fa piacere farmi dei regali, tra oggetti e denaro non vedo quale sia la differenza”.
“Infatti, secondo me non avresti dovuto accettare neanche i regali”.
La mia obiezione era stata più brusca di quanto volessi e per un momento pensai di essere investita dalla furia che intuivo ribollire costantemente sotto l’ingannevole pacatezza di Teresa. Invece, replicò con tono distaccato, quasi rinunciando a rivolgersi a me.
“Per te è facile rimanere coerente con dei principii. Hai una famiglia che ti paga gli studi e l’affitto di questa casa e tutto ciò che ti serve, ti sosterrà finché ne avrai bisogno. Non sai cosa sia il frigo vuoto alla terza settimana del mese, quando i soldi sono già finiti. Ti ho mai detto che non ho un conto in banca, anche se ho iniziato a lavorare dal primo anno di ragioneria? Tanto, non ho una lira da metterci sopra”.
L’ora di cena passò e non mangiammo, si fece buio ma non accendemmo la luce, nella penombra le parole, anche le più dure e dolorose, parevano meno difficili da tirare fuori e mettere in fila. Così seppi che il padre di Teresa, ferroviere precocemente in quiescenza, percepiva una pensione modesta e si arrangiava facendo l’imbianchino ma quei soldi se li teneva per sé. Era l’unica fonte di reddito della famiglia e la madre sopportava il suo carattere ermetico (che non l’aveva trattenuta dal dargli quattro figli, uno dietro l’altro) e la relazione annosa con una parrucchiera del quartiere perché aveva appena la licenza elementare, sapeva fare solo la casalinga e se si fosse separata, non avrebbe saputo come mantenersi. La sorella maggiore si era sposata giovanissima e se n’era andata, poi c’era un fratello fragile, bello e dolcissimo che stava in una comunità di recupero per tossicodipendenti ed era la terza volta che ci tornava; infine, c’era la sorella più piccola, che a quattordici anni era svogliata e ottusamente capricciosa, destinata a cacciarsi prima o poi in qualche guaio serio.
“La borsa di studio e la laurea sono la mia via di fuga, Claudia. Ma non ce la faccio più a frequentare i corsi, studiare e lavorare tutte le sere fino all’una di notte per mantenermi. La storia con il Barone finirà, ma ha promesso di aiutarmi a terminare gli studi. Per me va bene, tanto andrei a letto con lui anche gratis. Certo, se smettessi di andarci perderei il suo sostegno, presumibilmente, però questo non trasforma la nostra storia in un contratto”.
Aggiunse un’osservazione che mi aiutò ad accogliere le sue ragioni astenendomi dai giudizi e a comprendere quale era il criterio da cui muovevano molte sue posizioni.
“Cosa credi che mi abbia evitato di prendere la strada di Vallanzasca? Sì, sempre lui, è un esempio facile. Il caso, solo il caso che non mi ha fatto incrociare certe compagnie e pure la mancanza di avidità; io ho esigenze modeste, la ricchezza non mi interessa. Ma vedi, basta uno sbaglio per finire fuori strada e dopo è difficile rimettersi in carreggiata”.
Allora le raccontai la mia famiglia, due genitori benestanti, affettuosi e sempre solidali tra loro e una sorella che non ho mai amato, fin da quando eravamo piccole. Ci separa appena un anno ma non abbiamo nulla in comune: lei bruna e morbida nelle forme come la mamma, precocemente sviluppata, ondivaga e distratta fino alla svagatezza, io chiara di carnagione e di capelli, magra e refrattaria alle smancerie e alle confidenze, determinata e anche polemica. Mia sorella, amorfa come sabbia, per prendere forma aveva bisogno di un contenitore che era, invariabilmente, il fidanzatino di turno (e iniziò a tredici anni, dato che ne dimostrava sedici) del quale diventava volenterosa e insipida proiezione; cosicché, nel corso degli anni l’avevo vista cambiare stile, atteggiamento, persino accento, per non dire delle opinioni su temi, eventi e questioni di principio. Quando rimase incinta e decise di tenersi il bambino mi disse, con tono melodrammatico, che era un atto d’amore. Ribattei che era una dimostrazione della sua stupidità e insipienza, l’ultima di una lunga serie.
Quella sera confidai a Teresa che l’insofferenza per Miriam, che ormai assomigliava all’astio, mi stava corrodendo ed era per quello che, dopo il diploma al liceo classico Berchet, avevo deciso frettolosamente di iscrivermi a giurisprudenza a Pavia e andarmene di casa. Prima di guastarmi del tutto e, magari, di compiere lo sbaglio fatale che avrebbe cambiato il corso della mia esistenza.
Io e Teresa guardammo in fondo al nostro animo e ognuna dentro quello dell’altra, accettando senza riserve ciò che vi avevamo scorto.
Dopo quella notte saremmo state sempre imprescindibilmente sincere, accantonando qualsiasi difesa e ogni pudore.
Di quegli anni conservo solo ricordi belli, anche ripensando alle discrepanze significative che sovente sollevavano discussioni somiglianti a uno screzio. Alla fine, giungevamo a un accomodamento che non era mai per compiacenza o per interrompere una diatriba rischiosa; al contrario, avevamo messo in atto uno sforzo convinto per allargare le rispettive vedute, mediandole e integrandole con il punto di vista dell’altra.
Mentre Teresa continuava a uscire con il Barone, presenza saltuaria ma costante, senza rinunciare a incontri talvolta dimenticabili, avevo intrecciato una bizzarra relazione con il ragazzo di quel sabato notte in cui andai a Milano da sola. Ci ritrovammo per caso allo Studio 54, locale in Corso XXII Marzo di grande fama e breve durata (più spesso chiuso che aperto), che già nell’81 si trasformò nel più longevo e apprezzabile Rolling Stones. Ci parve una specie di segno del destino e frequentandoci scoprimmo di essere dissimili eppure complementari, ma non riuscimmo a innamorarci l’uno dell’altra. Coltivammo una specie di amicizia, una confidenza affettuosa che includeva anche la giocosa ricerca del piacere e in quel periodo era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
In seguito, ci saremmo persi di vista per disattenzione, nel senso che fummo distolti da altre conoscenze e ci dimenticammo di noi; tuttavia, mantenemmo a lungo l’abitudine di preoccuparci che l’altro stesse bene e periodicamente ci fornivamo reciproci resoconti nel corso di interminabili telefonate notturne.
Io e Teresa ci laureammo insieme nei tempi previsti, lei con una votazione un poco più alta della mia e tornammo a Milano per iniziare la pratica forense presso due diversi studi legali, dove entrammo grazie alle conoscenze di mio padre; intanto, il Barone continuava ad aiutare la mia amica con generosità, dato che durante il praticantato Teresa guadagnava (come me) poco o niente.
Mia sorella si era infine sposata, non resisteva mai a lungo in nessun posto di lavoro e suo figlio, il quale cresceva sballottato, viziato e maleducato era spesso a casa nostra.
Teresa dovette abbandonare il percorso per l’avvocatura e trovarsi un impiego decentemente retribuito verso la fine di quell’anno: non poteva più contare sull’aiuto del Barone, il quale le aveva detto che era costretto a scomparire per un tempo presumibilmente lungo.
La loro storia si concluse senza drammi e con alcune domande di cui era meglio non conoscere le risposte.
Comunque, il Barone si dileguò da un giorno all’altro rintanandosi in una zona d’ombra fanto fitta da non poter più essere scorto; molto tempo dopo mi toccò ammettere che se era vissuto ai margini della legalità, o anche oltre, lo aveva fatto con innegabile classe. Il protagonista della più lunga “non storia” della vita di Teresa, per usare le sue parole, probabilmente vive tuttora tranquillo in qualche Paese che non ha sottoscritto patti di estradizione con l’Italia.
Durante il periodo di pratica forense, Teresa era entrata in contatto con dei giovani avvocati che collaboravano con una nota associazione impegnata nella difesa legale dei perseguitati politici di tutto il mondo e riuscì a farsi assumere nella sede milanese:
Collaborava all’analisi delle informazioni sui casi d’interesse, alla verifica delle fonti e allo studio delle norme giuridiche applicate nei Paesi coinvolti; il compenso era discreto ed era molto contenta perché le competenze acquisite con il dottorato in giurisprudenza erano utili e necessarie, tanto da costituire titolo preferenziale per l’ingaggio. In fondo, non si era discostata così tanto dal suo progetto iniziale di difendere i disgraziati.
Passai l’esame di Stato, prestai giuramento all’Ordine degli Avvocati e rimasi a lavorare dove avevo svolto il praticantato. Mia sorella si separò, benché avessi scelto di diventare matrimonialista rifiutai di occuparmi della sua causa e lasciai la casa famigliare, affittando un monolocale nello stabile in Corso San Gottardo dove qualche anno dopo acquistai l’alloggio dove ho abitato fino a oggi.
Teresa alternava periodi di lavoro a Milano a lunghe trasferte nella sede romana dell’associazione ma seguitammo a vederci ogni volta che potevamo, aggiornandoci sulle vicende che non riuscivamo più a condividere. Continuammo a farlo anche in quelle due o tre circostanze in cui una di noi credette di essersi imbattuta nell’amore della sua vita. E poi magari era anche vero, nessuno può garantire che un grande amore duri per sempre.
Gli anni si srotolarono più velocemente di quanto avremmo immaginato; mentre Teresa a un certo punto si appassionò a un’attività politica di un certo impegno, io mi destreggiavo tra le meschinità dei matrimoni finiti male e le malinconie delle separazioni consensuali. Conoscevo il finale della storia senza avere letto l’inizio e lo svolgimento, eppure è proprio in quei capitoli che si preannuncia l’epilogo di un sentimento, è lì che si genera il momento in cui due rette smettono di intersecarsi e divergono, sempre più lontane tra loro. Sembra che nulla di ciò che si è svolto dal punto A al punto B rivesta più alcuna rilevanza, né i motivi, né i percorsi: restano solo le aspettative deluse, i progetti falliti; forse è stato tempo sprecato ed è questa la vera sconfitta.
Fu dunque con irragionevole incredulità, come se le cose ci fossero sfuggite di mano, che io e Teresa festeggiammo insieme e senza testimoni il mio cinquantesimo compleanno con una cena preparata da lei alla quale, per una volta, non opposi resistenza e un bianco asprigno che scivolava con naturalezza sopra ogni cosa. Fu probabilmente a causa di una sottovalutazione degli effetti di quest’ultimo che cademmo nella trappola subdola delle rimembranze e dell’analisi retrospettiva, opportunamente annebbiate da una benefica gaiezza etilica. Superate con fatica crescente le conseguenze di vicissitudini deludenti, vivevamo entrambe un periodo di serena solitudine, essendo giunte alla conclusione comune che, a quel punto, la presenza di un compagno avrebbe avuto senso solo se avesse migliorato sensibilmente la qualità dei giorni e delle notti.
Rammento che in un istante di fulminante lucidità pensai che, nel corso degli ultimi trent’anni, io e Teresa avevamo adottato comportamenti analoghi per ragioni opposte: io per nascondere la mia vulnerabilità, lei per dissimulare la sua invulnerabilità. Espressi questa riflessione ad alta voce e lei replicò:
Non so se è come dici tu. “Comunque, credo che quelle come noi finiscano per rimanere sole, prima o poi”.
Si era fatto tardi, sulla strada passava ancora qualche auto ma il silenzio si allargava in cerchi concentrici sempre più ampi. Teresa fissava un orizzonte lontano che non riuscivo a scorgere.
“Quando raggiungerò i sessant’anni farò come Emily Dickinson, mi ritirerò dalla vita per cogliere il senso vero delle cose, in una casa solitaria dove per te ci sarà sempre posto. Scriverò perché tu legga e racconterò affinché tu ascolti e così, dopo avere vissuto, guarderò passare i giorni e aspetterò il tuo arrivo”.
Era un pensiero dissennato, eppure coerente con l’estremismo esistenziale che aveva ispirato le scelte di Teresa da quando la conoscevo. Mi sfidò sorridendo e prese a declamare, con la bella voce vibrante,
“…Notti selvagge, notti selvagge
Se fossi accanto a te
Notti selvagge sarebbero la nostra estasi…”
“E da dove arriva questa intima conoscenza di Emily Dickinson?”
Teresa aveva sorriso di nuovo, stavolta migrando per alcuni istanti in qualche luogo noto soltanto a lei.
“Me la presentò il Barone, molto tempo fa. Stava nella piega di uno dei suoi tanti risvolti”.
Non so perché, ma in quel momento mi chiesi se sapessimo davvero dove stavamo andando. Prima di salutarmi mi diede una busta, supponevo fosse un messaggio di auguri invece era un assegno: la somma corrispondeva alla metà dell’affitto di quattro anni nella casa di Garlasco. C’era anche un biglietto, Un patto è un patto, grazie per il prestito.
Teresa ripartì per Roma, ma dovette rientrare pochi giorni appresso. Suo padre era stato investito sulle strisce pedonali nei pressi di casa; l’auto non procedeva a grande velocità e il guidatore colpevolmente sbadato si era subito fermato, ma il malcapitato pedone aveva battuto la testa sul cordolo del marciapiede ed era morto sul colpo. Al funerale rividi la famiglia di Teresa, che ormai conoscevo bene. C’era Angela, la sorella grande, con il marito e la figlia; si posero un poco in disparte, come se da tempo avessero preso le distanze dagli altri e si trovassero lì per una forma di cortesia. Mamma Savina recitava un ruolo senza talento e senza convinzione; quando mi chiese se potessi assisterla nella causa con l’assicurazione (tu che sei avvocato, quanto pensi che potrò prendere?), peraltro di esito scontato, dovetti ricordarle che mi occupavo di separazioni e divorzi, ma le avrei dato i recapiti di un collega. Guido, il fratello bello e fragile, stava accanto a Teresa con l’aria smarrita. Se ne era andato da Milano e pareva che stesse bene, ma la mia amica lo sogguardava con una certa apprensione. Patrizia, la sorella minore, eterna adolescente invecchiata male, aveva l’aria annoiata e la faccia spiegazzata di chi dorme troppo poco. Al cimitero a un certo punto osservai Teresa che si staccava dal gruppo dei famigliari per avvicinarsi a una figura femminile che avevo già notato: piccola e minuta, sulla sessantina, ben vestita e dall’aspetto curato, si manteneva a una prudente distanza. All’improvviso compresi che doveva essere l’amante del padre; non avevo idea di come Teresa intendesse affrontarla e mi misi in allerta, pronta a intervenire. Le due donne si posero l’una di fronte all’altra, scambiarono qualche parola, Teresa abbracciò brevemente la sconosciuta e mi sembrò un gesto consolatorio, quasi protettivo. Poi si allontanò senza voltarsi, mentre l’altra si asciugava gli occhi con le mani, come fanno i bambini. La mia amica mi confermò che era la fidanzata di suo padre, commentando: “Poveretta, sarà l’unica alla quale mio padre mancherà davvero”.
Teresa era abbastanza forte da potersi permettere di andare oltre la compassione: questa sottintende uno scarto laterale che è insieme dichiarazione di innocenza e presunzione di immunità. Da parte sua c’era, al comtrario, un impegno autentico a immedesimarsi, aderendo a un’ammissione di responsabilità collettiva e senza escludere di potersi trovare un giorno in una situazione analoga.
Io non sapevo compatire la sconsideratezza di mia sorella, che andava e veniva da casa dei miei seguendo l’andamento delle sue storie sconclusionate e nemmeno la debolezza dei miei genitori, i quali subivano tutto ciò senza sottrarsi. Il figlio di Miriam era finito in riformatorio a sedici anni per una spaccata a una gioielleria; avevo riconosciuto lo sbaglio fatale di cui parlava Teresa nei giorni dell’università, l’errore che devia il tracciato di un’esistenza generando una serie successiva di limiti infranti e di punti di non ritorno. Dopo il Beccaria arrivò San Vittore, prima per truffa e poi per una rapina; di lì a poco sarebbe uscito ed ero in attesa di una cattiva notizia sapendo che, quando sarebbe inevitabilmente arrivata, mi avrebbe lasciata indifferente.
Fu in quel periodo che conobbi Norberto. Durante la pausa pranzo (quando decidevo di pranzare) da Corso Monforte, dove si trova lo studio legale di cui ora sono socia, raggiungevo il Ginrosa in piazza San Babila. Più o meno della mia età, non bello ma elegante e disinvolto, dalla conversazione interessante e piacevole, lavorava per una grossa banca d’affari situata nelle vicinanze. Mi invitò a cena dopo un paio di mesi e accettai. Quando finimmo a casa mia mi disse subito che non era libero, aggiungendo che si era sposato tardi con una donna molto più giovane ed era padre di due gemelli ancora piccoli.
Era un impegno a lunga scadenza e non intendeva disattenderlo, sebbene per sua moglie non provasse più amore ma solo un tiepido affetto.
Fui altrettanto schietta, dichiarando che nella relazione che poteva offrirmi trovavo diversi vantaggi e pochi, trascurabili inconvenienti e lui mi scrutò perplesso, dubitando che non fossi del tutto seria; al contrario, ero consapevole e convinta.
L’ho amato con allegria, senza provare alcuna gelosia per ciò che lo legava alla sua famiglia e senza illudermi, né desiderare, di invecchiare insieme. Era una presenza rassicurante ma era un’altra a lavargli i calzini, volendo sintetizzare sbrigativamente gli aspetti più superficiali della vita in comune e sottintendendo quelli sostanziali. Forse trovavo persino intrigante la necessaria clandestinità della nostra storia.
Quando sua moglie andava in vacanza con i gemelli, Norberto si trasferiva da me; lo osservavo cedere al tentativo inconsapevole di riprodurre delle abitudini coniugali e ne ero infastidita, tanto che non vedevo l’ora che sua moglie rientrasse.
Tre anni più tardi, una sera al telefono Teresa mi riferì che intendeva stabilirsi a Roma e sposarsi con un collega venticinquenne da poco arrivato dall’Argentina. In quel periodo ci eravamo un poco allontanate, lei spesso a Roma e io presa dalla mia storia con Norberto e anche da incarichi professionali impegnativi. Rimasi sorpresa dalla notizia ma ancora di più dal tono inspiegabilmente recriminatorio della sua voce. Comunque, andai al suo matrimonio, conobbi il marito troppo giovane e bello e quando ci salutammo Teresa mi disse:
“So bene che non durerà, ma in questo momento ne ho bisogno”.
Tornai a Milano triste, scontenta, oppressa da un fastidioso senso di inadeguatezza.
Un anno dopo mi trovai a occuparmi della sua causa di divorzio; Teresa lasciò l’associazione e Roma, attraverso non so quali conoscenze trovò impiego presso una nota compagnia assicuratrice a Locarno e affittò la casa di Cannobio. Periodicamente, mi raggiungeva a Milano per andare a vedere qualche mostra, oppure andavo a trovarla al lago. Mi sembrava offuscata, la sua furia vitale sopita, fredda cenere di un fuoco esaurito.
Non mi resi conto che si stava ritirando dalla vita, come aveva annunciato di voler fare.
Forse, quando lo aveva detto nemmeno ci avevo creduto.
Qualche anno dopo, dovetti ammettere che nella mia storia con Norberto qualcosa si stava appannando, scivolavamo dentro una consuetudine pigra che mi deprimeva e irritava allo stesso tempo. Eppure, tirai avanti per inerzia, concentrandomi sul lavoro. Non ne parlai con Teresa, mancarono l’occasione, il tempo, il momento giusto, o mancava la familiarità di una volta.
Quest’anno, all’inizio di gennaio, una sera Norberto si era presentato a casa mia con due grosse valigie e un’espressione confusa: sua moglie voleva il divorzio.
Gli aveva rivelato di essersi innamorata di un altro e lui aveva reagito d’impulso, andandosene subito dalla casa che, comunque, appartiene a lei, dettaglio che ignoravo.
Non mi ha chiesto ospitalità per qualche tempo, si è stabilito da me e basta.
Naturalmente, ho affidato la sua causa a un collega.
Nei giorni successivi l’ho visto passare dall’euforia all’abbattimento, l’ho guardato girare disorientato per casa mia, come se non la riconoscesse, mentre cercava compulsivamente qualcosa che non trovava. E sono arrivati i fine settimana alternati con i gemelli, quindicenni sgraziati dalle mani costantemente unte, ostili e non ancora avvezzi all’uso del deodorante.
Del resto, è tutto così banalmente chiaro. L’equilibrio del nostro sodalizio si reggeva sulla resilienza del suo matrimonio e questo vale tanto per me, quanto per Norberto. Ci siamo scambiati un affetto sincero e accessorio, senza nessuna possibilità o ambizione di renderlo primario.
Ieri sera, prima che uscissimo a cena per festeggiare il nostro decimo anniversario, con tempismo forse discutibile gli ho detto che non intendevo più proseguire la nostra relazione, aggiungendo che sarei andata a Cannobio per una settimana e che, rientrando, mi aspettavo che avesse trovato un’altra sistemazione e portato via le sue cose dal mio appartamento. Per quanto mi sia sforzata, non ho trovato un modo più morbido ma altrettanto inequivocabile per esporre le mie intenzioni.
Norberto ha fatto una piccola smorfia che conosco bene, una contrazione degli occhi e della bocca che rivela il suo disappunto rassegnato allorché assiste all’avverarsi di una previsione infausta.
“Dimmi solo una cosa, se non stessi divorziando staremmo ancora insieme?”
Ho deciso in fretta che non era necessario metterlo a parte delle mie considerazioni.
“No, non credo. Tutte le storie finiscono, forse quelle clandestine si consumano prima di altre”.
Gli ho detto di lasciare le chiavi in portineria; non abbiamo nemmeno provato ad alludere al proposito di un’amicizia che non interessa a nessuno dei due e che forse non è possibile. Ci siamo scambiati un abbraccio improvvisamente impacciato che ci è sembrato un poco fuori luogo ed è stato un addio imbarazzato e triste, come ogni addio.
Norberto è uscito ed è rientrato molto tardi, credo abbia dormito sul divano e se ne è andato prima che io mi alzassi.
Teresa ha chiuso la nostra ultima conversazione telefonica con un taglio netto, fedele all’abitudine di troncare bruscamente il discorso quando ritiene di avere esaurito un argomento; ha detto solo “ti aspetto”.
Da quando ha lasciato Milano non so più immaginare le sue giornate e i suoi pensieri, non so più chi vede o chi le piace. Ognuna di noi due è da un’altra parte e si è creato un piccolo vuoto, un’aritmia che produce ansia e rallenta la mente, un fuori fuoco che nessun aggiustamento può correggere.
Questa constatazione è l’ultima scossa del sisma che nel giro di poche settimane ha fatto crollare le pareti di cartapesta dei traguardi che ero convinta di avere raggiunto, e all’improvviso non ho più niente.
Arrivo a Cannobio in una bella giornata di fine giugno, l’acqua quieta del lago appare appena mossa da piccole onde effimere.
Teresa abita in un vetusto villino un po’ fuori dal paese; fin dalla prima visita mi ha colpita la stranezza degli ambienti posti in successione, senza corridoi o vestiboli, ma separati da modesti dislivelli colmati da un paio di scalini, con un curioso effetto di movimento asimmetrico. Attorno c’è un giardino pieno di azalee e di camelie fiorite, con un’enorme magnolia che fa ombra a un paio di sdraio colorate.
Mi ha vista arrivare, mi apre il cancello e quando scendo dall’auto mi viene incontro sorridente, mi chiude in uno dei rari abbracci della nostra lunga frequentazione; ci stringiamo come se volessimo accertarci della reciproca consistenza corporea.
Sta bene, è di nuovo bella e forte. Non ci vediamo da diversi mesi, ma la nostra è una di quelle storie capaci di sopravvivere al tempo, alla distanza e persino agli allontanamenti. C’è una negligenza alla quale dobbiamo rimediare, bisogna recuperare le strofe dimenticate di una vecchia canzone della quale abbiamo conservato la melodia.
Nella fresca penombra del salotto, mi ascolta attenta mentre le racconto l’epilogo della relazione con Norberto; annuendo convinta quando espongo le mie conclusioni.
Ha preso dei giorni di ferie e mi propone di andarcene da qualche parte, via da Cannobio che incomincia a essere troppo affollata, benché lei abiti abbastanza fuori mano da non accorgersene. In tanti anni abbiamo fatto una sola lunga vacanza assieme, prima non c’erano i soldi, poi sono arrivati i vari compagni, piuttosto che impegni professionali non conciliabili. Ma la vacanza a Patti Marina che ci concedemmo subito dopo la laurea fu per molti versi memorabile; infatti, ne parliamo ancora oggi.
Prendemmo un volo notturno da Linate a Palermo e mentre l’aereo puntava il muso verso il basso con un cambio di assetto che ci parve troppo repentino, comparve la stringa corta e stretta della pista di Punta Raisi, sospesa tra il mare e la notte stellata.
Teresa, l’amica che non aveva paura di niente, mi afferrò un braccio.
“Ma come cazzo ti è venuto in mente di prenotare un volo notturno per Punta Raisi?”
“Costava meno”
“Ecco, moriremo per spilorceria”.
Non morimmo ma, malgrado i numerosi viaggi in aereo che avrei fatto negli anni successivi, non ricordo un applauso egualmente partecipato da parte dei passeggeri, al momento del brusco atterraggio.
“Ma ti ricordi il venditore di scarpe che conoscemmo in aereo?”
Era un cinquantenne grassoccio e gentile che sedeva accanto a noi, sull’altro lato del corridoio. Da Palermo dovevamo prendere un treno per raggiungere Patti, ci offrì um passaggio in auto fino a Messina e, dopo un breve conciliabolo, decidemmo (con una certa incoscienza) che era innocuo e abbastanza fuori forma perché in due potessimo sopraffarlo, o darcela a gambe. Si rivelò effettivamente inoffensivo, addirittura cortese e simpatico. Faceva l’ambulante e aveva il baule della macchina, una grossa giardinetta scalcagnata, piena di merce. Rammento Palermo nella luce dorata dell’alba, barocca e piena di immondizia, superba e fatiscente, e gli indimenticabili cornetti che il brav’uomo ci offrì per colazione in un bar dove, a suo dire, servivano le paste migliori della città. Ci lasciò alla stazione rifilandoci un suo biglietto da visita (“…qualunque cosa, voi chiamatemi, mi raccomando”) e due paia di sandali tremendi che accettammo con imbarazzata gratitudine e abbandonammo poco dopo in un angolo della stazione. Né io né Teresa ricordiamo il nome di quell’uomo candidamente premuroso ed è un torto che non si meriterebbe.
“E ti ricordi quello strano appartamento che avevamo affittato e quella stronza di ragazzina che ci rubò i soldi, perché di sicuro è stata lei? E la pesca con la lampara di notte, te la ricordi?”
A proposito di notti selvagge, che c’è di più estatico di una notte in barca con due vecchi pescatori e i due giovani nipoti con cui facemmo coppia per tutta la vacanza, il mare piatto nella tiepida notte stellata e la luminescenza del plancton a pelo d’acqua? Avevamo ventitré anni, la laurea che premiava quattro anni di fatiche e in quel magico chiarore spettrale tutto ci sembrava possibile.
Era stato un ragazzo originario di Patti, cameriere in una pizzeria di Garlasco, a offrirci per una cifra modica l’appartamento dove trascorremmo tre settimane.
Apparteneva a un cugino che aveva appena finito di ristrutturarlo per affittarlo come casa per le vacanze. Si trovava in fondo al cortile dove abitava lui stesso, a poche centinaia di metri da una spiaggia libera di sabbia scura che sarebbe stata bella, se non fosse stata piena di cicche di sigaretta e cartacce. Era un alloggio grazioso al piano terra, con una fragile porta d’ingresso a finestra protetta da una tapparella in plastica, ed era l’unica apertura delle due stanze di cui era composto, oltre al bagno arieggiato da un’alta finestrella.. Per non morire asfissiate la lasciavamo sempre aperta, con la tapparella parzialmente abbassata e sovente ci trovavamo tra i piedi la figlia del proprietario, ragazzina impicciona e sfacciata. Fummo imprudenti a lasciare dei soldi in casa e quando sparirono eravamo certe che fosse stata lei a scovarli e prenderli. Teresa non aveva più un soldo, io mi feci cambiare un assegno con il quale prosciugai il conto che mio padre alimentava regolarmente, senza però concedere riserve per gli sprechi o gli imprevisti. A parte questo inconveniente, fu una bella vacanza.
Tuttavia, non mantenemmo i contatti con nessuno dei molti nipoti di siciliani, emigrati a Milano e dintorni, che conoscemmo quell’estate; nemmeno con i due che furono i nostri inseparabili compagni per quelle tre settimane, quasi che la loro memoria dovesse rimanere per sempre relegata in quel luogo.
Stiamo ancora parlando di Patti, dei pranzi dai nonni degli amici, dei discorsi oziosi sulla spiaggia scura o sul corso principale durante l’ora dilatata dello struscio, quando siamo interrotte da un’apparizione piuttosto stravagante.
Ha appena fatto il suo maestoso ingresso un imponente felino che si muove con fluidità minacciosa, il corpo massiccio pronto allo scatto, lo sguardo attento. Si ferma proprio di fronte a noi, muto e interrogativo.
Ha il mantello a chiazze irregolari di varie tonalità di grigio, la testa tondeggiante con le orecchie piccole leggermente laterali, uno degli occhi giallo arancio è collocato al centro di una macchia circolare candida che lo fa sembrare più grande dell’altro. Ha un aspetto bizzarro ed è noncurante portatore di una bruttezza tanto singolare da apparire magnifica. Teresa lo accoglie con un “bentornato, vagabondo sciupafemmine” e mi spiega che ha deciso di essere il suo gatto fin dai primi tempi in cui venne ad abitare in questa casa, ormai quasi sei anni orsono.
“Era una domenica d’inverno e pioveva, lo vidi rannicchiato sotto la magnolia e mi fece pena. Dischiusi l’uscio e schizzò in casa come una pallottola; rimase a fissarmi dal pavimento della cucina, era fradicio e talmente brutto che mi misi a ridere, chiedendogli anche scusa”.
Prosegue raccontando che lui aveva emesso un miao che suonava come “lo so, ma cosa ci posso fare?” ed erano subito diventati amici. Gli aveva offerto quello che aveva di adeguato, cioè una scatoletta di tonno che apprezzò molto e che rimane tuttora il suo cibo preferito.
“Si è stabilito in salotto, sulla poltroncina dove stai seduta tu e che comprai da un rigattiere perché costava poco e mia nonna ne aveva una uguale, ma va e viene come gli pare dalla finestra che lascio sempre socchiusa. Ogni tanto sparisce per dei giorni, però ora so che tornerà sempre”.
“Bella storia. E gli hai dato un nome o è semplicemente Gatto?”
“Certo che ha un nome, si chiama Barone”.
C’è un raggio di sole pomeridiano che entra obliquo dalla finestra aperta e attraversa il volto di Teresa, accende le sue iridi di bagliori arancioni facendole assomigliare a quelle del gatto Barone.
“Lo hai amato, quell’uomo, vero?”
“Sì, un po’. Ho voluto bene alla parte di lui che ha deciso di mostrarmi, non saprò mai se avrei potuto amarlo nella sua interezza. Però, qualunque cosa abbia fatto o sia stato, spero che stia bene”.
Ora Teresa cerca di spiegarmi il suo breve matrimonio e lo fa con la lucidità rigorosamente onesta che ha sempre applicato alle sue valutazioni, sia che riguardassero altri o se stessa.
“Non ero più soddisfatta della vita che conducevo e avevo perso i miei punti di riferimento. Ne ero consapevole, eppure mi occorreva un gesto clamoroso e votato al fallimento per arrivare a lanciare per aria le carte, rovesciare il tavolo e cambiare gioco. Il matrimonio con un ragazzo con la metà dei miei anni che conoscevo a malapena mi sembrò abbastanza clamoroso e sicuramente fallimentare”.
C’è un’altra ragione che non dice, ma che conosco: io non c’ero.
Vivevo la mia storia comoda con Norberto, ero orgogliosa ma anche consapevole delle responsabilità derivanti dal mio stato di socia dello studio legale, ed ero delusa dalla scelta di Teresa che, come tanti anni prima, deteriorava l’idea che mi ero fatta di lei.
A differenza dell’altra volta, lei non aveva potuto o voluto spiegarmi le sue motivazioni, perché se ne era andata già da un po’.
Glielo dico, perché è la sola persona con la quale ho saputo essere sempre sincera, ma lo sapeva già.
C’è una luce morbida da pomeriggio estivo che si arrende alla sera con dolcezza, accettando che il suo tempo sta per concludersi ed è un abbandono senza rimpianti né rimorsi.
Chiedo a Teresa com’è il lavoro a Locarno, dice che è piuttosto noioso ma guadagna bene e il tragitto da casa è breve, poi le resta abbastanza tempo per dedicarsi ad altro.
“Altro cosa?”
“La lettura, le passeggiate, il gatto, l’anziano vicino di casa che ama raccontarmi pezzi della sua vita e magari sono balle, ma le presenta bene. La contemplazione, l’ozio operoso, quello che vede fiorire rose nel deserto, accudisce i ricordi e si inventa un futuro che diventa sempre meno lungimirante. A proposito di futuro prossimo, il proprietario di questa casa intende venderla e credo che la comprerò”.
Teresa non è mai stata legata a un luogo e questa villetta, che avrebbe anche bisogno di qualche ammodernamento, è davvero grande: ha una cucina talmente ampia che fa anche da tinello, un salotto, uno studio, due stanze da letto e due bagni, oltre al giardino.
Le chiedo perché proprio questa casa, mi risponde senza esitazioni:
“Ho sempre pensato che un giorno avresti potuto venirci anche tu. La gente divorzia pure da queste parti”.
È una scena che abbiamo già vissuto a ruoli invertiti: io, lei, una casa come un ponte gettato tra noi due; il tempo si è bloccato in un nitido dejà vu, provo il medesimo impulso a prendere una decisione fondamentale senza rifletterci affatto, perché è la sola conclusione possibile. Scriverò perché tu legga, racconterò affinché tu ascolti, così Teresa si era figurata i suoi sessant’anni.
“Ci sono situazioni che dovrò sistemare, ci vorrà un po’ di tempo. Intanto, sentiamo che cifra vorrebbe il proprietario di questa casa”.
Non mi servono pretesti o gesti clamorosi per rinunciare a una vita che non m’interessa più, sebbene la virata nella quale mi sto gettando sia, già di per sé, piuttosto sorprendente.
Nei prossimi giorni prepareremo una lista di priorità come eravamo solite fare quando studiavamo insieme. Discorsi molto pragmatici: soldi, cose da vendere, lavori da fare in casa; dovrò decidere se continuare a esercitare, dove e con quale impegno.
In fin dei conti, non c’è altro di cui discutere e il finale di questa storia è coerente con l’inizio e con i capitoli successivi, una circonferenza perfetta per racchiudere senza celare, continuando a guardare fuori. Da oggi in avanti ci faremo compagnia, ritroveremo quello che l’altra smarrirà, confineremo la sincerità nel presente e mentiremo sugli abbagli giovanili per renderli grandiosi. Mentiremo sul passato e lo faremo così bene che sarà facile trasformare la realtà deformata dalla nostalgia in vissuto reale. Dopo tanta disarmante verità, ci regaleremo tutte le menzogne (potremmo definirle interpretazioni o aggiustamenti, dopotutto) che ora esigiamo.
Credo che seguiteremo a restare in bilico sull’orlo di un sentimento incompiuto di cui conosciamo la profondità e dove le nostre anime si rispecchiano, indissolubilmente appaiate. Come è sempre stato, anche quando non lo sapevamo.
“…How can you have a day without a night?
You are the book that I have opened
And now I’ve got to know much more
Like a soul without a mind
In a body without a heart
I’ve missing every part…”
(“Unfinished SympathY”, Massive Attack)
“…Come puoi avere un giorno senza una notte?
Sei il libro che ho aperto
E ora devo sapere molto di più
Come un’anima senza ragione
In un corpo senza cuore
Mi manca ogni parte…”