Davanti alla porta d’ingresso stazionano due grosse valigie, silenziosi monoliti grigi che portano addosso i segni di qualche involontario maltrattamento, scalfitture superficiali, piccole ammaccature sugli angoli. Sono le stesse che mi hanno accompagnato durante tanti viaggi dal giorno del mio matrimonio, solo che oggi, per la prima volta, varcherò quella soglia senza mia moglie.
Affronterò questo viaggio da solo, biglietto di sola andata per un unico passeggero, non ci sarà ritorno. Ci guardiamo, ognuno cercando nell’altro la mappa di un passato remoto che forse non è nemmeno mei esistito: ci fu l’urgenza di qualcosa che volevamo, ci convincemmo di poterlo trovare l’uno nell’altra.
Lei tace, tutto ciò che intendeva esprimere lo ha detto – malamente, parevano le rimostranze di un acquirente risentito per la scarsa durata di un elettrodomestico – nel corso di una lunga notte insonne che ora ho fretta di lasciarmi alle spalle. Ho un solo rammarico, che è stato anche l’incentivo a prendere una decisione drasticamente conclusiva: non ho più molto tempo.
C’è una bella luce rosata che schiarisce il cielo senza dissipare del tutto le ombre tra le case e sulla strada. È un martedì che semhra una domenica, sulla via passano poche macchine, scarsi anche i passanti frettolosi. Si preannuncia una bella giornata di marzo in cui niente dovrebbe andare storto, non oggi. Aspetto il taxi facendo tintinnare le chiavi nella tasca destra, replicando un gesto che era solito fare il nonno Umberto e che trovavo abbastanza fastidioso. Automatismo bizzarro, perché le chiavi in questione aprono la porta del suo appartamento in viale Romagna, ma il nonno ormai non c’è più.
L’uomo che per me è stato padre e madre, senza tuttavia accantonare il ruolo naturale di nonno, è scomparso da tanto tempo, eppure non ho mai voluto vendere né affittare l’alloggio nel quale trascorsi i miei anni giovanili. Ho lasciato tutto come stava, pagando una donna perché ogni due settimane pulisse per bene; decisione che mia moglie non ha mai capito né approvato ma che ho mantenuto, con caparbia indifferenza alle sue critiche. In queste stanze si sono conservati gli effluvi benefici di sentimenti genuini e inalterabili, e vi ho trovato conforto ogni volta che ne ho avuto bisogno. Da oggi sarà di nuovo questa, casa mia.
In effetti, non ho ancora deciso se considerare una simile brusca giravolta come un nuovo inizio o piuttosto come un ricongiungimento, e in fondo una cosa non esclude affatto l’altra. Ho bisogno di dare una definizione esatta alle situazioni, senza pretendere che sia dirimente: mi servono parole precise per dare forma a pensieri e sentimenti, un assunto provvisorio a cui riferirmi, magari per allontanarmene con più agio.
Allora, incominciamo da un dato di fatto non confutabile. In conseguenza di alcuni avvenimenti piuttosto tristi sono cresciuto in una famiglia composta unicamente da maschi. Il nonno, mio padre e suo fratello, lo zio Attilio: i primi due vedovi, a dispetto delle statistiche nazionali che assegnano alle donne una sopravvivenza assai più elevata rispetto agli uomini, lo zio scapolo più per fatalità che per vocazione. Il più sfortunato fu mio padre, il cui matrimonio durò appena il tempo della mia gestazione: sposò mamma nel ’59 che era incinta e la poverina morì per complicanze da parto nel gennaio del ’60. Il nonno mi aveva riferito della morte prematura di diverse altre donne sposate con avi della nostra stirpe, tanto che a un certo punto dell’adolescenza, oltre a meravigliarmi della nostra mancata estinzione, mi venne il dubbio di essere portatore di una certa sfiga, tanto che fui sempre molto discreto sulle vicende famigliari. Nonostante tutto, crebbi in un contesto sereno e divertente, soprattutto da quando, poco prima che iniziassi le scuole elementari, la signora diligente e noiosa che mi aveva accudito dalla nascita fu congedata in seguito alle pressioni del nonno, convinto che oramai potessimo cavarcela benissimo da soli.
Finì che ci trasferimmo tutti a casa sua, occupando finalmente le stanze vuote dell’appartamento sovra dimensionato in viale Romagna, acquistato negli anni ’50 per pochi soldi a un’asta fallimentare. Il nonno Umberto aveva appreso il mestiere di orafo da un bravo artigiano, poi approdò in una rinomata gioielleria in via Torino dove le sue originali e raffinate creazioni erano molto apprezzate. Nonostante amasse il lavoro che gli aveva anche procurato una vita agiata, a volte diceva di rimpiangere di non avere fatto il cuoco e si impegnava in esperimenti culinari di cui eravamo automaticamente degustatori privilegiati.
Il papà e lo zio gestivano in società un negozio di biciclette e accessori correlati in via Padova, dunque erano impegnati sei giorni su sette ma la sera ci ritrovavamo tutti a cena, con diverse defezioni da parte dello zio il quale, nonostante una cospicua collezione di tentativi falliti per le ragioni più svariate, era alla costante ricerca di una fidanzata che durasse più a lungo di un litro di latte fresco. A tavola parlava spesso delle sue relazioni minacciando di presentarci questa o quella, con mio padre che lo pigliava in giro e il nonno che, al contrario, lo incoraggiava a non perdere le speranze. In quanto a mio padre, sulle sue probabili frequentazioni femminili mantenne un caparbio silenzio e, in ogni caso, nessuna superò mai l’uscio d’ingresso.
A casa nostra si riuniva regolarmente un gruppo di amici per degli interminabili tornei di poker che implicavano l’irrinunciabile posta di pochi spiccioli, destinati dai vincitori alla cassa comune per la periodica pizza in compagnia. Nessuno di questi si portava appresso la moglie o la fidanzata di turno, sicché il mio microcosmo infantile seguitava a essere popolato solo da maschi.
L’unica eccezione era rappresentata dalla signora Iolanda, il ciclone che tutti i venerdì ribaltava ogni stanza (ed eventualmente chiunque si trovasse incautamente al suo interno) con metodica efficienza, nascondendo anche gli oggetti di uso comune che il nonno usava tenere a portata di mano. Bassa e segaligna, straordinariamente vigorosa, riusciva a intimorirmi con i suoi modi irruenti e l’atteggiamento severo, è poi aveva i baffi.
Fu il nonno Umberto ad aiutarmi a fare i compiti e soprattutto a insegnarmi a risolvere rebus e parole incrociate, a giocare a dama e alle carte: ramino, scala quaranta, ruba mazzo e i solitari. Fu lui a portarmi al Planetario e allo zoo dei Giardini di via Palestro, al Castello Sforzesco e al cinema a vedere la prima del film Il libro della giungla.
Facevamo sovente lunghe passeggiate da Largo Cairoli a piazza San Babila percorrendo via Dante, piazza Cordusio e la galleria di Corso Vittorio Emanuele.
Ci fermavamo al Bar Campari, da Savinelli, talvolta ci allungavamo fino in via Paolo da Cannobio per entrare dal Quinté, prestigioso artigiano che realizzava bellissime scarpe da uomo su misura, o in altri storici esercizi dove il nonno pareva in grande confidenza con il personale e i proprietari. Ripensandoci in seguito, mi persuasi che vi fosse una parte della vita del nonno della quale mio padre e lo zio sapessero poco o nulla, e di ciò ritenevo di trovare conferma nella sua aria elegantemente sorniona, propria di chi la sa lunga. Doveva trattarsi di qualcosa di piacevole, perché spesso fischiettava dei vecchi motivi e, se riteneva di non essere osservato, accennava qualche agile passo di danza.
Sembrava custodire serenamente una serie di segreti, o meglio di fatti taciuti per naturale e opportuno riserbo, dai quali aveva tratto il suo indiscutibile equilibrio.
Oltre che con le sue stravaganze culinarie, il nonno forgiò il mio gusto con merende pomeridiane a base di pane e salame, pane e gorgonzola, pane con burro e acciughe. Da casa nostra erano banditi biscotti, merendine e tè, semmai in estate pesche nel vino rosso o tuorlo d’uovo sbattuto con zucchero e caffè, e di questa educazione gastronomica gli sarò sempre grato.
Per l’intero periodo delle elementari e delle medie, io e il nonno trascorremmo i mesi di luglio e agosto a Lagnasco, borgo agricolo del cuneese, ospiti di un amico di vecchia data del nonno. Luciano, che chiamavo impropriamente zio, dato che lo vedevo girare per casa da sempre, ricambiava la visita nel mese di dicembre, che passava per intero da noi. Raffinato e di bella presenza, milanese di Porta Vigentina come il nonno, quando concluse la carriera di dirigente dell’ENI lasciò Milano e investì i risparmi acquistando una cascina e diversi ettari di frutteti nel cuneese, affidandone la cura a contadini della zona. Gli andò decisamente bene: l’attività era remunerativa e aveva tempi morti che lo lasciavano libero di dedicarsi ai viaggi e agli amici rimasti a Milano. Luciano era “signorino”, come diceva il nonno con un tono canzonatorio che non si curava affatto di dissimulare ma non se ne crucciava per niente, né sembrava patire la solitudine nel casale un poco fuori mano, con un maestoso melograno in mezzo alla corte. Di quelle lunghe vacanze rammento le visite ai frutteti, enormi distese di albicocchi, peri e meli, il sole a picco del mezzogiorno che tagliava in due l’aia, l’ombra tiepida del portico e la frescura umida delle stanze riparate dai muri spessi, la scala scricchiolante con i gradini di legno che saliva alle camere da letto. Durante il giorno bighellonavo in bicicletta per campagne insieme ad altri ragazzini del paese, miei coetanei, in assoluta libertà. Se mi allontanavo da solo a piedi, per essere sicuro di ritrovare la strada di casa mi affidavo a Gegio, il cane dello zio. Meticcio di taglia abbastanza imponente da competere con un pony e dall’albero genealogico evidentemente complicato, era inspiegabilmente bello, di una bellezza fiera e selvatica. Purtroppo era cieco dall’occhio destro, ottenebrato da un’uniforme patina grigia, sicché dovevo stare attento a posizionarmi sempre alla sua sinistra perché qualsiasi presenza a destra lo impermaliva, come diceva lo zio Luciano, e poteva mostrarsi aggressivo. A me piaceva correre al suo fianco e poi buttarmi nell’erba con lui accanto, le mani nel pelo folto e odoroso.
La sera andavamo alla bocciofila del paese, dove il nonno e Luciano alternavano tornei di bocce a quelli di biliardo, ospitato in una sala del bar annesso alla struttura. Erano entrambi giocatori eccellenti e appassionati. Provai per anni, senza successo, a mettere in scena il gesto di energica scioltezza che consiste in una breve rincorsa conclusa con una veloce flessione sulle ginocchia, mentre il braccio destro si carica all’indietro e si estende per il lancio della boccia. Misurando la potenza, la medesima tecnica poteva esprimere un lancio preciso e moderato per raggiungere il boccino oppure una raffa forte e veloce per colpire le sfere avversarie, e quei due erano dei formidabili fuoriclasse in entrambe le manovre.
Alle volte il nonno e Luciano passavano parte della notte seduti sotto il portico con una bottiglia di vino. Dalla mia stanza al piano superiore li udivo parlottare a bassa voce di cose loro e ridere di tanto in tanto; mi sforzavo di decifrare i loro mormorii ma presto cedevo al sonno. Alla fine di agosto tornavamo a Milano con la Bianchina del nonno carica di cassette di pere e mele e di marmellata, preparata con la frutta meno bella dalla signora che si occupava della casa. Passavo il mese di settembre crogiolandomi nella nostalgia per quella luce schietta, per gli spazi aperti e vuoti, e per il prendere il tempo con più leggerezza, senza fretta né mete o programmi, lasciandosi scorrere senza opporre resistenza.
Di quegli anni ho ricordi esilaranti e teneri, credo tuttavia di avere automaticamente diritto a tutte le considerazioni da psicologia spicciola per giustificare la mia accentuata e precoce curiosità nei confronti delle donne e del loro corpo. Da bambino mi innamoravo delle mamme dei miei compagni di scuola: non le ammiravo per ciò che rappresentavano, ovvero la figura materna, bensì come portatrici di femminilità, per il loro essere altro dai maschi in maniera misteriosa e di certo incantevole. . Mi piacevano quelle che in pieno inverno si presentavano all’uscita da scuola con certi cappottini avvitati al corpo snello. Una mano guantata stringeva un colletto striminzito di pelo di topo muschiato (che, sebbene chiamassero rat musqué con impareggiabile sussiego, restava sempre un topo, come spiegò il nonno), le scarpe col tacco e calze fini a vestire le gambe di impalpabile nudità.
Immagino che piacessero anche al nonno Umberto, rammentando la galanteria con cui cedeva il passo sorridendo e l’impegno nell’elargire saluti rispettosamente cordiali.
A mano a mano che crescevo, divenne evidente che non ero dotato della spigliatezza appena compiacente, da onesto commerciante, di mio padre, o dei modi signorili corroborati da una dialettica rigorosa, eppure raffinata e lieve, del nonno. Assomigliavo allo zio Attilio, gigione maldestro pericolosamente in bilico tra infatuazioni e sentimenti, con una netta inclinazione a confondere le une con gli altri.
Così, negli anni del liceo ero pieno di amiche e avrei potuto amare ognuna di esse, invece mi toccava sorbirmi regolari e dettagliate confidenze mentre studiavamo o ascoltavamo musica, quel genere di cose riservate ai maschi considerati non atti alla riproduzione, né a qualsiasi pratica sessuale.
Aspiravo a tutt’altro genere di intimità e, quando infine successe, fu con una che neanche mi piaceva tanto ma ebbe il merito di affrancarmi dal ruolo incomodo e frustrante di amico fraterno. In un certo senso, mi lanciò sul mercato.
Penso che potrei trascorrere il resto dei miei giorni chiuso qui dentro, in questo bozzolo confortevole, senza nemmeno troppa curiosità per ciò che avviene fuori dalle finestre, come una crisalide che è già stata farfalla ed è tornata a morire nel guscio dove è avvenuta la sua mutazione. Mi torna alla mente la strana esperienza che ho vissuto stamattina, radendomi davanti allo specchio appeso sopra al lavabo. Osservavo la mia faccia da sessantenne, sgualcita e dai contorni con qualche segno di cedimento; la fissavo con stupore, come se non mi fosse nota. Ho visto l’immagine del mio volto sfaldarsi in una dissolvenza nebbiosa ed è iniziato un fulmineo viaggio a ritroso nel tempo, guardavo la mia faccia sempre più giovane, fino a ritrovare tratti infantili, poi da neonato e poi d’improvviso da vecchio, vecchissimo e morente, infine il buio assoluto. Avevo le vertigini, mi sono aggrappato al lavandino per non cadere. La mia solita faccia, invecchiata con relativa dignità, era di nuovo nello specchio, ogni cosa era tornata al suo posto. L’allucinazione ricorda la scena finale di 2001 Odissea nello spazio, però la mia evoluzione si è interrotta e non sono rinato come Star Child, che peccato. Perché, e cosa significa questa visione da sciamano ubriaco? Scivolo nel sonno, magari lì troverò una risposta.
Il più delle volte mi annoiavo abbastanza in fretta delle mie storie, ma dalle ragazze per le quali presi le cotte più feroci fui ignorato o mollato anzitempo. Il nonno Umberto riusciva a ricondurre a una relatività rassicurante i miei ricorrenti drammi (che gli rovesciavo addosso con noiosa impudicizia), privandoli del connotato di accadimento assoluto che rischiava sempre di annichilirmi.
Dopo il diploma al Volta mi iscrissi a Scienze Politiche alla Statale senza molta convinzione. Credo che si trattò più che altro di contraddire mio padre, il quale spingeva per un titolo di studio più “concreto”, termine che mi infastidiva a prescindere, ma c’entrava anche il fatto che non avessi uno straccio di progetto per il futuro e quella facoltà mi sembrò un buon modo per prendere tempo.
Studiavo con scarso impegno, dando appena qualche esame tra i meno difficoltosi. Uscivo con Teo e Ivano, con i quali avevo condiviso le medie e il Volta. Si erano iscritti a Ingegneria al Politecnico dove avevano stretto amicizia con Lallo e Tito, due napoletani svegli e simpatici. I due stavano alla Casa dello Studente di Viale Romagna, a pochi metri da casa mia, e per qualche ragione misteriosa attorno a loro girava un sacco di gente, soprattutto molte ragazze.
Salendo e scendendo per le scale di quel brutto edificio in stile fascista dove andavo sovente a perdere tempo, m’imbattei nella storia che condizionò i successivi cinque anni della mia vita e influì sule scelte successive, considerazione che non ha il fine di giustificare alcunché ma solamente di fornire una spiegazione possibile.
Mara si era appena diplomata e arrivava da Scicli; avrei appreso tempo dopo che era figlia di farmacisti che possedevano la bottega più antica del paese, fin dai primi del ‘900, una generazione dopo l’altra. Qualcuno ci presentò in un contesto banale, forse era amica di un amico di Lallo o di Tito: io m’incantai all’istante, per questo ho di quel primo incontro un ricordo annebbiato.
Vestita come un’anacronistica figlia dei fiori con gli anfibi al posto dei sandali, aveva una figura morbida e sensuale tipicamente mediterranea, il viso infantilmente tondo dall’espressione mutevole e gli occhi marrone chiaro dal taglio obliquo, capelli castani e ondulati legati in una lunga treccia ballonzolante sulla schiena.
Scoprii abbastanza facilmente quale stanza occupava e un pomeriggio rimasi seduto per terra davanti alla porta, aspettando che rientrasse. Quando mi vide alzò appena un sopracciglio e disse “ah, eccoti qua”.
La sua compagna di stanza non c’era; entrammo nella camera dai soffitti alti, ampia e spoglia come tutte le altre che avevo già visto e, prima di ogni altra cosa, ci infilammo sotto le coperte.
Al contrario di me, Mara a diciotto anni aveva idee molto chiare sul suo futuro: laurea magistrale i fisica, poi corso di specializzazione in astrofisica, ancora non sapeva in quale università. Alla fine di questo percorso, ricerca e divulgazione scientifica. Io, invece, a vent’anni puntavo a un sereno fuori corso a Scienze Politiche, confortevole parcheggio post adolescenziale dove, insieme a diversi miei coetanei, avrei cercato di tirarla ancora un po’ per le lunghe prima di affrontare l’età adulta con le responsabilità conseguenti (compresa quella di sostentarsi autonomamente), fingendo di avere cose più importanti di cui occuparsi. Ma eravamo in ritardo, gli anni della rabbia genuinamente cosmica, capace di sobillare moti di protesta più contingenti, era alle spalle. rimanevano le disquisizioni ideologiche alimentate da volenterosi e nostalgici che non avevano ancora elaborato il fallimento di un’occasione mancata, un fardello di cui ci era stato passato il testimone. Si stava affermando una restaurazione senza che ci fosse stata una rivoluzione a precederla, semmai una ribellione violenta e inefficace. Il senso della collettività si smarriva, sostituito dall’egoistica affermazione dell’individuo interpretata come libertà, prevaleva la sopravvalutazione delle apparenze. Vecchi principi e pregiudizi tornavano a galla rafforzati da una spregiudicatezza nuova, accolti con un’esplicita e generale approvazione.
Comunque, ero affascinato e contemporaneamente disturbato dalla chiarezza di intenti e dalla determinazione di Mara, che già nel corso del primo anno accademico macinò un numero impressionante di esami ottenendo votazioni molto alte. Forse mi seccava il fatto che, neanche con il passare del tempo, io trovassi una collocazione qualsiasi nel suo progetto ma, anche in questo, lei fu sempre assai più lucida di me.
Una sera invitai Mara a a cena da noi e lei accettò, comportandosi con disinvolta naturalezza. Ero ansioso di sapere che impressione ne avessero i miei: da tutti e tre ricavai commenti prudenti e di poco difformi che potrei riassumere con “ragazza formidabile, ma stai attento”. Il nonno fu un poco più esplicito.
“ormai ci sei dentro fino al collo, però se fossi in te non mi farei troppe illusioni e incomincerei a tirare fuori almeno un piede”.
Ovviamente, non tenni conto delle loro caute riserve e mi lanciai allegramente tra le nuvole lasciando a casa il paracadute.
Quel primo inverno, nelle notti più serene Mara mi trascinava fuori Milano, in aperta campagna, per scrutare il cielo con un ridicolo cannocchiale alla ricerca di Aldebaran.
“La vedi la cintura di Orione? Parti da lì e sposta lo sguardo verso la costellazione del Toro. Riesci a mettere a fuoco la grossa stella rosso arancio, proprio al centro? Ecco, quella è Aldebaran, la mia stella preferita, una delle più grandi e luminose dell’universo. Voglio capire di che materia è fatta e come si comporta “.
Io mi ero già smarrito nei pressi della cintura di Orione e ondeggiavo lento in un caos in rapida mutazione, con la consapevolezza che sarei sempre arrivato in ritardo, ovunque e per qualunque cosa. La sola congiunzione astrale che m’interessava era, semmai, l’irripetibile combinazione di eventi casuali che, negli anni ’60 e 70, a Laurel Canyon incrociò le strade di tanti musicisti, da Iggy Pop a David Bowie, da Franck Zappa a Joni Mirchell e molti altri. Crosby e Still conobbero Neil Young proprio nel modesto quartiere sulle Hollywood Hills, a Los Angeles, dove in quegli anni si determinò un’atmosfera irripetibile e leggendaria.
Ascoltavo il suono morbido della voce di Mara irrompere nel buio attenuato dal chiarore delle stelle, intravvedevo piccoli sbuffi di vapore uscire dalla sua bocca mescolati alle parole, e disperdersi subito nell’aria fredda. Ero affascinato dalla passione che trasfigurava il suo volto da bambina e metteva concitazione nei suoi gesti; mi rattristava che quel trasporto non fosse per me.
In certi pomeriggi giacevamo a lungo abbracciati nello stretto letto, nella camera dai muri tappezzati di manifesti, Jim Morrison e un iconico Che Guevara accoppiato al volto malinconicamente enigmatico della meravigliosa Valentina di Crepax, insieme a fogli di carta con frasi o citazioni scritte a pennarello sui temi più svariati e fra loro incongruenti. Una volta mi raccontò diffusamente della misteriosa scomparsa di Majorana e delle strampalate congetture che si susseguirono nei decenni successivi, ma il nocciolo della questione era nuovamente la composizione della materia. Come al solito, mi distrassi a metà strada pensando a una scomparsa meno misteriosa ma altrettanto capace di indurre teorie fantasiose, quella di Elvis Presley.
Non avevo la capacità di concentrazione e la ferrea volontà di Mara e i miei studi si arenarono del tutto, ero troppo assorbito da lei e dal suo continuo e innocente sottrarsi: si negava senza cattiveria, senza nemmeno accorgersene.
“io e te non siamo “noi”, rappresentiamo un teorema non dimostrabile perché fondato su di un assioma completamente fallace. Ci troviamo sotto l’influsso di una specie di incantesimo che un giorno si spezzerà, e allora tutto questo ci verrà semplicemente a noia”, decretò lei una sera soffiandomi in un orecchio la voce troppo ferma da bimba saggia, mentre giocava con le dita tra i miei capelli.
Non so ancora oggi se avesse ragione, ma di certo lei fu la prima a liberarsi dall’incantesimo; io, come sempre, arrivai in ritardo.
Ci infilammo in una relazione dall’andamento rapsodico alla quale mancò la continuità di una storia, ma che presentava un carattere di inevitabilità. Sicuramente eravamo più che diversi, direi addirittura irrimediabilmente distanti ma per me ciò non contava nulla o non abbastanza, lei era la mia Aldebaran, la stella più luminosa del firmamento, quella di cui avrei voluto conoscere la materia più intima.
C’è poi una verità molto banale: io ero totalmente, irragionevolmente, cocciutamente innamorato, lei no.
Fu un tempo lungo e rapidissimo, frammentato in singoli segmenti separati da brevi spazi vuoti. Eppure, nella dimensione di costante incertezza riuscivo a trovare alcuni solidi appigli e, sebbene oscillassi tra euforia e frustrazione, non mi sentii mai solo, provavo un incorruttibile senso di appartenenza e di comunione.
Il mese di agosto si prospettò come una di quelle interruzioni.
“Io me ne torno a casa, a Scicli”, aveva affermato Mara fin dalla prima estate, senza includermi nei suoi programmi. Allora, quell’anno e i quattro successivi, partii con ivano e Teo: riviera romagnola, poi Spagna e Grecia, un anno raggiungemmo Tito e Lallo a Napoli e ci spostammo sulla costiera amalfitana, dove un loro amico ci ospitò tutti nel villone di famiglia e fu un vero spasso. Durante quelle vacanze finivo sempre per buttarmi, senza neanche averne troppa voglia, in qualche storia tiepida che poi dimenticavo in fretta.
La mia inusuale famiglia assisteva allo svolgimento altalenante della relazione con la ragazza che amavocon curiosità blanda, considerandola alla stregua di un film dal finale prevedibile fin dalle prime battute.
A un certo punto però il nonno, concedendosi una deroga dall’educata neutralità praticata con ammirevole costanza, definì Mara “una lunatica anaffettiva che, in caso di necessità, non esiterebbe a mangiare il gatto di casa”.
Invece, tutti accolsero con soddisfazione il sussulto di orgoglio che, il giorno del mio ventitreesimo compleanno e nel mezzo di un infelice tempo di sospensione con Mara, mi spinse a mettermi con impegno sui libri e a cercarmi un lavoro a mezza giornata per non gravare interamente sulla pur generosa famiglia. Mi ero stufato del limbo in cui giacevo da quattro anni e, per la prima volta, forse per l’effetto dell’evidente inconsistenza della mia relazione amorosa, mi occorreva un progetto concreto.
La mattina studiavo o andavo ai corsi, il pomeriggio ero impegnato come commesso alla Feltrinelli di via Manzoni, condizione che mi permetteva di darmi delle arie, a dispetto della modestia dell’incarico, solo per il peso storico e culturale della libreria.
La sera, se non mi incontravo con Mara, uscivo con Ivano e Teo, , oppure studiavo con insolita caparbietà. Mi rimaneva davvero poco tempo per riflettere sulla situazione sentimentale; seguitai a non decidere e lasciai che gli eventi accadessero in una successione che, comunque, avevo intuito da un pezzo.
In quel modo riuscii a conseguire il dottorato in Scienze Politiche l’anno seguente; rimasi alla Feltrinelli in attesa di un’occasione migliore accettando un impegno a tempo pieno.
Mara si laureò nell’autunno dell’85; ad assistere alla discussione della tesi vennero i genitori e il fratello e non me li presentò; partì la sera stessa per Scicli, dove avrebbero festeggiato con altri parenti e amici. Le era stato offerto un dottorato di ricerca a Milano ed entro la fine dell’anno avrebbe deciso se accettare o trasferirsi all’Università di Padova per la specializzazione in astrofisica. Quando tornò a Milano mi annunciò che sarebbe partita per l’Australia insieme ad alcuni compagni di corso. L’idea era quella di percorrere un pezzo di outback, lontano dalle città e dall’illuminazione artificiale, per individuare la Croce del Sud, luminosa costellazione azzurra visibile nell’emisfero australe.
Se me lo avesse chiesto l’avrei seguita in quell’avventura, anche se della Croce del Sud non me ne fregava un accidente: non me lo chiese. Trascorsi dunque un mese tentando di prepararmi a un addio. Provai a immaginare la mia vita senza di lei, la luminosa Aldebaran del mio universo privato, e non sapevo come fare.
Il nonno, mio padre e zio Attilio notarono la mia irrequieta sofferenza e scelsero una posizione attendista.
Intanto Teo e Ivano, i quali si erano laureati prima di me, lavoravano da un anno e già cercavano un altro impiego; ci vedevamo con minor frequenza e sovente, sentendo i loro discorsi, mi rendevo conto di essere rimasto indietro. Ero stato in ritardo per la rivoluzione, per Laurel Canyon, per un’inutile laurea in Scienze Politiche e per un sacco di altre faccende. Del resto, non sono neppure stato a New Orleans prima di Katrina né a New York prima di quell’11 settembre; potevo andarci ma per qualche ragione non l’ho fatto e ci sono cose che ormai non potrò più vedere, se non nelle commemorazioni
Sono sempre arrivato un po’dopo. La mia cronica mancanza di tempestività è palese, anche se il più delle volte è stato il caso a collocarmi sulla scena quando ormai lo spettacolo era finito o troppo avanti perché potessi afferrarne il senso.
Mara sarebbe tornata dall’Australia la vigilia di Natale atterrando in Sicilia, dove si sarebbe trattenuta fino all’Epifania.
Non saprei dire cosa m’infastidì, se la notizia stessa o piuttosto il tono serenamente perentorio con cui fu annunciata nel corso di una laconica e disturbata conversazione telefonica, so soltanto che provai un desiderio dirompente di ribellione. Sentii l’impellenza di stabilire a mia volta una distanza anche fisica, smettendo di aspettare passivamente un ritorno che non era mai certo, né comunque significativo.
Decisi che avrei avuto anch’io il mio deserto, uno un poco più a portata di mano, nel sud della Tunisia: Tozeur, il Sahara e le oasi di palme da dattero. Avevo conservato l’opuscolo di un’agenzia turistica, era un viaggio che mi sarebbe piaciuto fare con lei. Invece, partii il 27 dicembre con Teo e Ivano, i quali sarebbero andati ovunque pur di sottrarsi al Capodanno a Milano, dato che al momento erano sprovvisti di fidanzate. A me spiaceva lasciare il nonno e mio padre (lo zio sarebbe partito per Tenerife), ma con loro c’era anche zio Luciano e sapevo che da tempo preferivano disertare i festeggiamenti di fine anno, trovando riparo in una serena indifferenza.
Preparai la valigia con un certo entusiasmo infilando cose un po’ a caso: a Tozeur il clima si preannunciava mite ma nella notte che avremmo trascorso in tenda nel deserto le temperature sarebbero state abbastanza rigide, così capi leggeri e giacca invernale parevano mostrare una certa logica.
Lasciammo Milano sotto un cielo acquoso e incolore; all’aeroporto di Djerba fummo accolti da una gradevole brezza tiepida che smuoveva appena candide nuvolette nel cielo azzurro, e ci sentimmo subito molto più lontani da casa di quanto non fossimo in realtà. Non eravamo stati così intraprendenti da costruirci un itinerario autonomo e spostarci con un’auto a noleggio, viaggiavamo intruppati su un grosso e comodo pullman con altri turisti italiani, per lo più coppie piuttosto mature, così per tutto il viaggio ci limitammo a contatti educati e superficiali.
Da Djerba ci trasferimmo a Tataouine e visitammo i villaggi fortificati; percorremmo chilometri di strada polverosa che attraversava luoghi solitari, dove la monotonia del paesaggio piatto era interrotta da piccoli gruppi di case in argilla, addossate le une alle altre, qualche cane magro dormiva all’ombra dei muri. Raggiungemmo l’ampia distesa salina di Chott El Jerid nell’ora del mezzogiorno, in una luce abbacinante che generava miraggi evanescenti sulla linea dell’orizzonte. Il pensiero di Mara aveva acquisito la medesima indefinitezza: stava là, inafferrabile, forse persino inesistente.
Anche la vasta oasi di Tozeur si parò dinanzi ai nostri occhi come un miraggio: arrivammo nella luce di un crepuscolo screziato di giallo e di rosa che si insinuava tra le palme e i cespugli fioriti, accendendo di riflessi cangianti l’acqua gorgogliante dei canali che l’attraversavano. Eravamo alloggiati in un grande albergo con qualche pretesa appena fuori città, posto sull’ideale linea di confine tra l’abitato e il deserto, in una specie di terra di mezzo che assumeva il valore di soglia simbolica, a separare il qui da un altrove ignoto.
L’albergo affacciava su di un largo viale di terra argillosa ornato da alte palme, la facciata era decorata nello stile tradizionale che caratterizzava la città vecchia: mattoncini di sabbia e argilla disposti in modo da creare rilievi e figure geometriche; alla fine del breve viale d’ingresso una fontana esagonale spruzzava timidi getti intermittenti d’acqua da una serie di ugelli posti al centro. Era un posto bello con qualcosa di trasandato, pareva la rappresentazione perfetta di un’aspettativa delusa.
Il giorno dopo ci dissociammo dal resto della chiassosa comitiva e Girammo per le strette vie della Medina per conto nostro. Visitammo una tessitura di tappeti, bevemmo un tè alla menta forte e liquoroso ed entrammo in un locale dove mangiammo dolci e tentammo di fumare con il narghilè, operazione che trovammo complicata e di scarsa soddisfazione.
Dopo la visita alle tre oasi di montagna, lussureggianti e particolarmente ricche d’acqua; ci spingemmo fino al confine con l’Algeria, costeggiando lungo il percorso gole scoscese e villaggi abbandonati, la terra brulla e gialla circondata dalle alture incombenti. L’indomani ci staccammo nuovamente dal gruppo per l’escursione nel deserto.
Venne a prenderci, con un grosso e scomodo fuoristrada, un giovane barbuto e socievole che parlava troppo in fretta in un francese impastato con qualche dialetto locale; nel pomeriggio sostammo in un’oasi dalla quale ci saremmo addentrati nel deserto a dorso di cammello.
All’ombra delle palme, mentre preparavano i nostri animali di cui solo allora valutammo la preoccupante altezza, osservammo l’infinita distesa ondeggiante dinanzi a noi. Appariva come un paesaggio in perenne movimento oscillatorio, la luce morbida aveva una consistenza materica. Ci addentrammo verso un tramonto dove l’ambiente circostante si tingeva di rosso e di arancio, come se ci stesse colando addosso.
Avvistammo l’accampamento di tende dove avremmo consumato una cena berbera attorno al fuoco e pernottato in una tenda; i maledetti animali si misero a correre incitati dalle grida gutturali della nostra guida scellerata e arrivammo con le budella annodate, frastornati dalla straniante magnificenza di quel luogo.
La luce si spegneva facendosi più polverosa, il cielo scuriva e apparivano miliardi di stelle.
L’accampamento era assai spartano e popolato da altri ragazzi giovani, non più di una decina e tutti stranieri, ed era la condizione ideale per vivere una simile e sperienza.
Il modesto padiglione che ci avrebbe ospitati tutti e tre presentava l’intera gamma di inconvenienti di una tenda vera montata in un luogo inospitale, mentre i berberi che ci accolsero non sembravano autentici ma facevano del loro meglio per essere convincenti. Eravamo accovacciati su delle stuoie attorno a un fuoco che riscaldava piacevolmente e rendeva la scena molto suggestiva, mangiavamo con cautela un tajine di carne troppo speziato quando udimmo un frastuono scoppiettante. Si materializzò uno scassato camioncino dal quale smontarono tre ragazzini che corsero nella nostra direzione.
Le guide li apostrofarono ringhiose ma quelli replicarono qualcosa di incomprensibile ma certo beffardo. Uno di questi puntò dritto nella mia direzione e mi cacciò bruscamente in grembo un fagotto che scambiai per qualche indumento che senz’altro voleva vendermi; mi accorsi che invece era qualcosa di vivo, caldo e tremante.
“Vingt dinars, vingt dinars!”, gridava perentorio il ragazzino; io tentennavo tra lo sbigottimento, la curiosità e il timore. Comunque, estrassi alcune monete dalla tasca, forse anche più di quanto richiesto, tra le risate di scherno delle guide.
“Bravo, hai appena comprato un cucciolo di volpe del deserto. Appena lo lasci andare quelli lo riacchiappano e lo rivendono, finché resta vivo”, disse uno degli accompagnatori in un buon italiano. Intanto, i ragazzini erano rimontati sul camion, che si allontanò sbuffando e cigolando. Poco dopo il motore si spense, probabilmente si erano appostati poco lontano.
Un cucciolo di volpe del deserto. Ecco una storia che piacerebbe al nonno, pensai mentre me ne stavo lì senza sapere cosa fare, intenerito da quella cosa morbida che si era accoccolata contro il mio stomaco. Ci ritirammo nella tenda seguiti dagli sguardi curiosi e perplessi degli altri viaggiatori, le guide già del tutto disinteressate all’esito della vicenda.
Pochi minuti dopo ci raggiunse una coppia di inglesi, la ragazza era riuscita a sottrarre della carne e del riso per sfamare il cucciolo. Aveva il pelo soffice del colore della sabbia e grandi orecchie triangolari e, benché lo reputassimo troppo piccolo per quella roba sbafò tutto quanto e poi si addormentò sul mio grembo.
Mentre ci proponevamo di studiare un piano, perché era indubbio che il fato ci avesse assegnato il ruolo di eroi in quella faccenda (e ammetto che per un attimo pensai di imbarcare il fennec sul volo per Milano), sentimmo il rumore del camion avvicinarsi all’accampamento. Rimase nei paraggi per diversi minuti, poi ripartì e il borbottio ansimante del motore si fece sempre più distante.
Incominciava a far freddo nella tenda ampia e spoglia, scarsamente rischiarata da una luce fioca che conferiva ai nostri volti tratti sommari; parlavamo a bassa voce in un’atmosfera confidenziale e grave al tempo stesso, da cospiratori in momentanea clandestintà. Era quasi mezzanotte quando ci giunse quello strano richiamo, un grido a mezzo tra un abbaiare rauco e il verso stridulo di qualche volatile al quale il cucciolo si riscosse, emetttendo piccoli guaiti spezzati. Comprendemmo che doveva essere la madre, e uscimmo silenziosamente nella notte seguendo il richiamo: sembrava provenire dall’ombra densa della duna che riparava l’accampamento. Il fuoco era spento, tutti si erano ritirati nelle tende, marciavamo vicini senza dire una parola, sentivo il suono lieve dei nostri respiri e poi uno più ampio e scuro che aleggiava attorno. Il deserto appariva in movimento anche in assenza dell’effetto distorsivo della luce diurna. Nel chiarore baluginante delle stelle, la duna era un miraggio che restava sempre alla medesima distanza, ma infine arrivammo. Un ultimo richiamo, gracchiante e vicinissimo, il piccolo fennec sempre più smanioso. Lo depositai delicatamente a terra, lo vedemmo correre saltellando verso la duna dalla quale sbucò qualcosa di più grosso e scomparvero insieme.
Tornammo indietro annusando la notte e il deserto, camminavamo adagio, intuivo piccoli sbuffi di sabbia sollevati dai nostri passi cauti, guidati verso le sagome scure delle tende dalla luminescenza delle stelle. Ognuno di noi si portava appresso un sorriso stupidamente trasognato, o forse eravamo solo piuttosto ubriachi perché i due inglesi a un certo punto avevano condiviso un liquore locale dolce e cremoso che accarezzava la gola, scaldava le membra e ammansiva anche lo spirito più irrequieto, e la bottiglia era quasi vuota.
Eravamo ancora riluttanti ad abbandonare i panni dell’eroe; mi ritrovai a ragionare sulla differenza che separa chi può scegliere e sprecare opportunità e chi invece non ne ha, senza saper decidere se, tra il cucciolo e i ragazzini, avessi aiutato chi ne aveva più bisogno. È certo più facile commuoversi per una piccola volpe catturata, che per dei ragazzini che hanno già dovuto imparare a vivere di espedienti; mi autoassolsi considerando che in fondo avevo salvato un animale e dato de soldi a chi ne aveva necessità, quindi potevo continuare a essere soddisfatto.
Mi fermai a osservare il cielo e fui sopraffatto da un gioioso stupore: per la prima volta da quando ne sentivo parlare, potevo scorgere distintamente la costellazione del Toro e al centro, grande e brillante d luce rosso arancio, ecco Aldebaran. E d’improvviso, nella notte fredda e strana che non avrei mai scordato, tutto divenne chiaro: Aldebaran era solamente una stella lontana e indifferente, un corpo celeste bellissimo destinato a rimanere misterioso.
Avrei voluto esternare questa riflessione agli altri ma ero beatamente disallineato, formulavo pensieri lucidi e profondi, eppure faticavo ad articolare le parole. Non avevamo ancora voglia di separarci, desideravamo trattenere la sensazione esaltante di essere parte di un unico, nobile intreccio; così ci sedemmo fuori dalla tenda, l’uno addosso all’altro, avviluppati da un groviglio indistinto di coperte, e e vegliammo aspettando l’aurora. Dentro quel che restava della notte, dentro il deserto. Dentro quel cielo punteggiato dal bagliore gelido delle stelle, dentro un provvisorio e non replicabile momento di compiutezza.
Il cielo prese a schiarire quasi all’improvviso in un luminoso pulviscolo giallo e rosa, l’ultimo astro a dissolversi in quel bagliore fu la luna, la sfera del sole sempre più grande e chiara.
Il giorno era ancora un’attesa nella luce incerta e dorata dell’alba che restituiva consistenza alle dune sabbiose e alla distesa ondulata di sabbia, quando rimontammo in sella per tornare all’oasi. Mi era capitato un animale giovane, un poco più piccolo degli altri, aveva grandi occhi languidi del colore dei datteri orlati da ciglia lunghissime, la sommità del cranio coperta da una fitta e irta peluria morbidissima. Per stare dietro agli altri teneva un trotto breve e radente, con un rollio che risultò persino piacevole e mi impedì di addormentarmi durante la cavalcata.
Dopo colazione salutammo gli inglesi con l’abbraccio solenne e commosso che si riserva agli addii necessari e grandiosi.
Avevamo creduto che il ricordo recente della nostra avventura nel deserto ci avrebbe distolti e tratti in salvo dalla noia chiassosa dentro cui saremmo piombati durante il cenone di Capodanno, ma nella bolgia dell’immenso salone addobbato con esagerazione pacchiana, dove confluirono i turisti di tre o quattro diversi operatori turistici, provammo un sincero sgomento. D’improvviso desiderai tornare a casa, poi realizzai che avrei dovuto affrontare l’inevitabile distacco di Mara, la sua assenza e la mia conseguente solitudine.
Erano le undici passate da poco quando decidemmo di lasciare la cena, la sala e quella folla vociante; uscimmo dall’albergo e ci sedemmo sul bordo marmoreo della fontana, fumando in silenzio. La porta a vetri si aprì di nuovo, udimmo per qualche istante un’eco del clamore insopportabile proveniente dalla sala dove si svolgeva il cenone. Passi leggeri sulla ghiaia, voci sommesse, vellutate come il cielo stellato sopra le nostre teste.
Le tre fuggiasche appartenevano a una comitiva di turisti francesi; sembrò del tutto normale presentarsi e sentirsi accomunati dal medesimo bisogno di dichiararsi estranei a tutta quella gente là dentro. Ci ritrovammo a passeggiare lungo il viale di palme senza osare allontanarci troppo dall’albergo; la conversazione fluiva piacevole e senza impegno, mentre il caso e l’istinto avevano già formato tre coppie che procedevano a braccetto, allacciate in un primo approccio confidenziale, sincronizzando passi e oscillazioni del corpo. Sentimmo suonare dodici rintocchi da qualche parte, ero pervaso da un’euforia dolce che mi spinse a pescare dal diaframma il mio timbro baritonale migliore per mettermi a cantare, come uno scemo ispirato, “Strangers in the night.
Per ciò che avanzava di quella notte, nessuno di noi tre dormì nella propria camera.
La mattina dopo non ricordavo nemmeno il nome della ragazza alla quale avevo dedicato una bella canzone: soli il lieve aroma di cannella emanato dalla sua pelle accaldata.
Sarebbe stata quella, l’unica memoria che avrei serbato di lei per tutti gli anni a venire. Una traccia olfattiva piacevole ed effimera.
Per qualche ragione, quella vacanza fu differente da quelle estive che eravamo soliti condividere. Tutti e tre sentivamo che l’età della spensieratezza, del vivere alla giornata lasciando semplicemente che le cose accadessero, tanto c’era tempo, era finita e i giorni che trascorremmo insieme non rappresentarono la breve fuga che ci eravamo figurati, bensì un momento di raccoglimento e di sincerità nel quale ci sforzammo di capire dove volevamo andare, ammettendo finalmente che dovevamo decidere di andare da qualche parte. Per la prima volta, commentammo senza reticenze gli anni del liceo, quando avevamo due pensieri dominanti: le ragazze e il fumo. Cercavamo di intrufolarci negli ambienti che ci apparivano trasgressivi (e lo erano, in un senso ben più radicale e complesso di quanto fossimo in grado di comprendere) come il Leoncavallo e le redazioni volanti della rivista underground Re Nudo, allestite per l’organizzazione del Festival musicale al Parco Lambro. Arrivammo in ritardo anche per quello, perché facemmo appena in tempo ad assistere alla drammatica edizione del giugno del ’76. Come tanti altri ragazzi prendemmo delle botte ma ce la cavammo con poco rischiando conseguenze assai peggiori. Smettemmo di andare anche al Leoncavallo nel maggio del’78: dopo l’oscuro assassinio di Fausto e Iaio, al posto dei quali avrebbe potuto trovarsi ognuno di noi; l’atmosfera al Centro Sociale era cambiata, facendosi pesante di rabbia, paura e sconforto. Di lì a poco ci saremmo diplomati e avremmo intrapreso percorsi universitari diversi, senza smettere di vederci ma allontanandoci progressivamente dalla complicità assoluta dell’adolescenza, e che ora si proponeva come esigenza comune di onestà.
Mara tornò a Milano solo per liberare dalle sue cose la stanza alla Casa dello Studente; alla fine aveva deciso di completare gli studi a Padova.
Potresti venire a trovarmi, qualche volta”
“…magari sì, qualche volta”.
Fu un saluto amorfo che non seppe neanche assumersi l’impegno di un addio; in fondo fu una delle tante interruzioni, l’ultima e definitiva.
Me ne andai senza voltarmi; camminavo su Viale Romagna, strada nota fin dall’infanzia, come se mi trovassi in una terra sconosciuta, un alieno espulso dall’astronave madre e scagliato dal caso su di un pianeta lontano e forse ostile-
Al nonno bastò una sola occhiata per capire. Mi affrontò con un piglio insolitamente severo, saltando il capitolo abitualmente dedicato alla complice commiserazione.
“Concediti una settimana per piangerti addosso, mettere al riparo in un posto sicuro i ricordi belli e buttare quelli brutti. Poi, però, basta”.
A questo punto si verificò un evento inatteso che mi indusse a una scelta che, forse, non avrei preso in considerazione, e che ne produsse un’altra come effetto collaterale.
Lo zio Attilio tornò dalla lunga vacanza a Tenerife annunciando di avere trovato l’amore della sua vita: a cinquantacinque anni, quando ormai non ci sperava più. Con la fiduciosa avventatezza praticata da sempre, aveva deciso di trasferirsi sull’isola dove Ester, divorziata da tempo, gestiva un piccolo albergo. Quella volta ce la presentò davvero ed era una donna graziosa e cortese sulla cinquantina, impegnata a tenersi in disparte per non disturbare. Osservava lo zio con tenerezza ansiosa, quasi temendo che potesse smaterializzarsi sotto il suo sguardo. Eravamo felici per lo zio ma il papà espresse, seppure scherzosamente, la sua preoccupazione: E adesso che ci faccio, da solo con tutte quelle biciclette?”, così mi propose di sostituire il fratello nella partecipazione societaria, affiancandolo nella gestione del negozio.
Naturalmente ne parlai con il nonno Umberto, il quale fece un gesto vago con la mano e disse “È l’attività di famiglia e finora ti ha mantenuto abbastanza bene. Imparerai quello che c’è da imparare, dopotutto le biciclette ti sono sempre piaciute”, e la questione fu chiusa.
Rimandando a un’espressione ampiamente equivocata, potrei dire che il nonno prendeva la vita con filosofia. L’equivoco risiede nell’attribuire a tale atteggiamento un connotato di semplificazione supina, mentre è l’accettazione della complessità, il tentativo di comprenderla e la flessibilità di adeguarsi quando, semplicemente, non se ne può fare a meno. Del resto, il richiamo alla filosofia è l’elogio dell’analisi critica e del ragionamento deduttivo.
Avrei cambiato orari, percorsi e abitudine, era giusto ciò di cui avevo bisogno.
Mi sarebbero mancate le pause pranzo ai Giardini di via Palestro, dove mi piaceva passeggiare nelle giornate di bel tempo. Incrociavo spesso una ragazza con la quale chiacchieravo volentieri, era socievole e intelligente, anche molto bella, alta e bionda, un tipo fine che non aveva mai un capello o un accessorio fuori posto. Giovanna era ragioniera e lavorava da un commercialista in via Della Moscova, abitava con i suoi al Gallaratese e alla compagnia dei colleghi durante il pranzo preferiva le camminate ai Giardin. Non ci davamo mai appuntamento ma in qualche modo riuscivamo a incontrarci; parlavamo di molte cose e anche delle nostre famiglie. Mentre lei accennò al fatto di essere sentimentalmente libera dopo una storia finita male, io preferii tenermi alla larga dall’argomento. Benché talvolta rivelassimo posizioni divergenti su temi di varia natura, riuscivamo ad argomentare senza attriti, chiudendo le discussioni con un senso di soddisfazione reciproca. Poi c’erano i silenzi condivisi, momenti di temporeggiamento in cui apprezzavo la sua presenza lontana da un’intimità che ancora non desideravo. Anzi, supponevo che il presupposto di quell’embrione di una futura amicizia fosse proprio la mancanza di attrazione sessuale.
Tuttavia, quando le raccontai della decisione di lasciare l’impiego alla Feltrinelli per entrare in società con mio padre, si congratulò ma colsi la delusione nel suo sguardo, il ripegamento di chi subisce un abbandono, postura che conoscevo bene.
Mi resi conto che, in quel preciso punto di svolta della mia esistenza, il pensiero di Giovanna – l’idea che avevo di lei – stava assumendo una rilevanza intrinseca, non poteva rimanere solo l’incontro casuale ai Giardini Pubblici nell’ora del pranzo, avulso dal resto delle mie giornate.
Le chiesi di uscire, e dal tono del suo assenso compresi che aspettava un mio invito da tempo.
Giovanna rappresentò l’approdo sicuro durante una burrasca; non una prospettiva di felicità ma certamente di sollievo. Le va senza dubbio riconosciuta l’abilità di insinuarsi nella mia vita con determinazione attentamente dosata, senza forzature ma concentrata sull’obiettivo di collocarsi saldamente nel contesto singolare della mia famiglia. Mio padre non nascose la sua immediata simpatia, il nonno si mantenne, come d’abitudine, prudentemente distaccato.
Di tanto in tanto, Mara mi telefonava da Padova, Non compresi mai il senso di quei brevi contatti fatti di parole che galleggiavano sulla superficie dei desideri e dei sentimenti con studiata vacuità.
“Mi sposo”, feci una sera gettandole addosso due parole armate per ferire senza possibilità di guarigione. In realtà, decisi in quel momento di sposare Giovanna, con la certezza del suo consenso.
Seguirono alcuni istanti di silenzio, il battito affannoso del mio cuore nelle orecchie mi impediva di percepire il respiro di Mara, tanto che temetti che avesse riattaccato, o sperai che fosse caduta la linea prima che io pronunciassi quelle due maledette parole. Invece, lei riprese il discorso dal punto esatto in cui l’avevo interrotta. Non mi cercò più, né io provai a chiamarla.
Feci la mia proposta a Giovanna qualche settimana dopo, con l’esito che mi aspettavo.
Ecco, in quel momento credetti di essere innamorato di Giovannna e probabilmente era vero. Mancavano l’intensità e il trasporto che mi avevano legato a Mara; d’altronde, la complessità dei sentimenti cambia con il passare del tempo e con lo stratificarsi delle esperienze.
Ci sposammo dopo poco più di un anno e andammo ad abitare in viale Tunisia, ubicazione comoda per entrambi rispetto ai luoghi di lavoro; la nostra unica figlia nacque alla fine dell’89.
Mio padre decise di seguire il fratello a Tenerife nello stesso periodo: erano talmente abituati alla rispettiva presenza quotidiana che la separazione stava creando uno squilibrio. Molto tempo dopo, ho intuito che c’era un’altra ragione: lo zio Attilio (e anche in questo gli sono simile) era capace di passare dalla vetta all’abisso in un niente; mio padre era il solo che potesse trattenerlo, quando volava troppo in alto, e soccorrerlo quando si schiantava. Credo sia sempre stato consapevole di tale compito, anche se era minore di un paio d’anni, e che non abbia mai inteso rinunciarvi.
Il nonno rimase da solo nella casa di viale Romagna, nuovamente troppo grande e vuota, ma sembrava non patirne.
Durante questi anni ho voluto bene a mia moglie con sincerità e anche con parsimonia: con lei non ho faticato a mantenermi al riparo dai rischi della passione che esalta e strapazza, senza includere la possibilità di un lieto fine ma solamente uno strappo finale ineludibile. Di sicuro, con Giovanna questo pericolo non c’è mai stato.
La nostra vita in comune è stata facile e rassicurante, mia moglie si è intestata la responsabilità di gestire la conduzione e l’economia domestiche, sollevandomi da molte noiose incombenze, con lodevole abilità organizzativa. Anche sull’educazione di nostra figlia ha sempre preso decisioni autonome e talvolta arbitrarie, anche se devo ammettere di essere stato un padre poco interessato al ruolo, dunque ho accolto volentieri una certa emarginazione. Le somiglia molto: persino più bella di Giovanna, è affetta da una bellezza tanto inaccessibile da risultare respingente. Quieta e assennata, in più di trent’anni non ricordo una disobbedienza, una contestazione o una ribellione, un guizzo di fantasia. Mia figlia non conosce la gioia feroce che si può provare sbagliando, lo stordimento delle cadute e il coraggio di rialzarsi, ogni volta. Non ha ombre nella vita, proprio come il triste pianista di piano bar che non sa nemmeno piangere, celebrato da De Gregori in una nota canzone, e la sua evidente mancanza di pieghe nelle quali cercare una trasgressione qualsiasi mi suscita la medesima diffidenza inconsapevole che provo per sua madre. Non si è ancora sposata e sembra che non le importi, convive magnificamente con la propria tediosa impeccabilità.
Avevo i miei spazi riservati: il negozio, la compagnia del nonno, le uscite con Teo e Ivano che perdurarono nonostante gli impegni famigliari di ognuno di noi e che includevano ulteriori zone franche dove ci concedevamo periodiche evasioni, non del tutto innocenti però prive di conseguenze.
Seguitai per tutto il tempo a cercare di tanto in tanto notizie di Mara, tramite conoscenze comuni o su riviste specializzate che leggevo solo per quello scopo: Dopo la specializzazione a Padova, iniziò una lunga collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e si trasferì presso l’osservatorio di Arcetri. Pubblicava spesso articoli divulgativi, scrisse anche un libro e insieme ad altri ricercatori scoprì un paio di stelle alle quali fu attribuita una fredda sigla alfa numerica.
La guardavo da lontano, come di tanto in tanto mi sforzavo di individuare Aldebaran nelle notti d’inverno. Con la diffusione su larga scala di internet negli anni ’90 divenne più facile e comodo reperire informazioni sul suo conto; nel ’96 scoprii che insegnava in una università vicino a Melbourne. Mi colpì il fatto che non vedessimo più lo stesso cielo e se ci fossimo smarriti nottetempo in qualche deserto (ipotesi improbabile, per quel che mi riguardava), confidando nelle stelle per ritrovare la giusta direzione io avrei cercato la Stella Polare, lei la Croce del Sud.
All’inizio del nuovo secolo ogni traccia di lei scomparve, come se si fosse addentrata in una lontananza impossibile da misurare.
In seguito, mi iscrissi persino ai social più improbabili con il solo scopo di rilevare qualsiasi impronta di lei, e ogni tentativo fu vano.
“Signor Edoardo, deve correre subito a casa del nonno Umberto, è successo qualcosa”-
Erano le nove e la signora che passava tutte le mattine dal nonno per rassettare la casa, fargli un poco di compagnia e aiutarlo a prepararsi il pranzo eramolto agitata. Mentre mi dirigevo in viale Romagna, ebbi la certezza di dover affrontare un momento prevedibile e temuto: a novantacinque anni e dopo la perdita dell’amico Luciano, il nonno era in discrete condizioni di salute ma sembrava vivere con cortese disinteresse, assistendo allo scorrere del tempo con pazienza rassegnata.
Rimanemmo a osservare la sua assoluta immobilità: si trovava sulla vecchia poltrona dello studio, adiacente alla sua camera da letto. Era stata la mia camera sin dal primo giorno per la vicinanza a quella del nonno e, soprattutto, perché era la mia stanza preferita, con la libreria e la scrivania a rullo completa di seggiola in legno con le ruote.
Il nonno era accuratamente vestito, scarpe comprese, camicia bianca, gilet di maglia grigia e abito in lana grigio scuro, poiché era inverno. L’ho sempre visto in camicia bianca e completo grigio, scuro in inverno e chiaro in estate. Sul letto era adagiato il cappotto, il cappello giaceva su di una bassa seggiola, giacché era ferma convinzione del nonno che posarlo sul letto portasse sfortuna. Gli erano rimasti pochi capelli, concentrati in una chierica sfilacciata, perciò quando usciva si proteggeva il cranio con l’immancabile Borsalino, in feltro se faceva freddo o in paglia se era caldo.
Accanto alla poltrona, la grossa valigia in cuoio marrone chiaro che utilizzava per le trasferte estive nel cuneese zeppa di indumenti, piccoli oggetti e alcuni libri. Chissà dove pensava di andare, ma a giudicare dall’espressione serena e vagamente sorridente del volto, doveva essere una destinazione felice.
Per molto tempo, mentre ero impegnato nelle occupazioni più banali, mi rigirava per la testa una frase: il nonno Umberto è morto, oppure è morto il nonno Umberto. C’è differenza tra le due versioni: la prima indica un’azione attiva da parte del soggetto, quasi una scelta; la seconda rappresenta un evento a cui soggiace.
In entrambi i casi, era un pensiero astratto, parole di cui tardavo a comprendere il significato. Credo che in parte dipenda dal fatto che, a partire forse dal decennio del dopoguerra, complici anche i progressi in campo medico e tecnologico, abbiamo incominciato inconsciamente ad assecondare un’insana aspirazione all’immortalità (non dell’anima né dei prodotti di eventuali talenti, bensì’ del proprio miserabile corpo), invece di accettare serenamente la transitorietà della vita.
Il giorno del funerale, osservando mio padre e lo zio Attilio, entrambi ancora abbastanza vigorosi, mi accorsi che il lavoro di corrosione della vecchiaia è precoce e subdolo, e attacca lo spirito molto prima del corpo, sottraendo ogni giorno qualcosa di insostituibile di cui si prova a fare a meno.
In accordo con i due figli, il nonno anni addietro mi aveva donato l’appartamento in cui avevamo vissuto a lungo, strambo arcipelago felice di soli maschi di cui il nonno era stato l’epicentro indispensabile. Mi occorsero diversi mesi per disfarmi solamente dei suoi abiti; elessi quell’ambiente a mia personale zona di decantazione, ogni volta che mi occorreva liberarmi dalle particelle solide che stavano in sospensione nel mio animo, rendendolo torbido.
Per una coincidenza che tendo a paragonare a una congiunzione astrale negativa, nello stesso periodo avevo perso il nonno e la scia luminosa di Mara. Se lei era stata la mia Aldebaran, il nonno Umberto aveva svolto la funzione di Stella Polare; senza di loro il mio firmamento era uniformemente grigio, come un cielo notturno soffocato dalle nubi.
Qualche mese fa, una mattina mi svegliai con un pensiero piantato di traverso nella mente: la mia vita non mi piace più. Seguì immediatamente una seconda riflessione, o piuttosto una precisazione: era il mio legame con Giovanna, la parte della mia vita che non mi piaceva più, per una serie di piccole ragioni letali.
No, la pace intorno a me non bastava più
Là sentivo marinai che cantavano
Aldebaran, andare, andare, andare lontano, sempre
Aldebaran, dal niente si partì verso il niente…”
(Aldebaran, NewTrolls)
Raramente certi malesseri insorgono all’improvviso, tuttavia vi fu un fattore scatenante: mancava poco al Natale scorso, una sera, cenando, osservai che all’inizio del 2020 avrei compiuto sessant’anni proprio mentre ricorreva il ventesimo anniversario della morte del nonno, tanto per baloccarsi sui numeri. Mia moglie colse l’occasione per riesumare il dibattito sulla vendita dell’appartamento di viale Romagna.
Pensai che la sua annosa insistenza fosse irritante e trovai sconcertante il fatto che non avesse mai preso in considerazione l’eventualità di andare ad abitarvi, dato che era più spazioso e bello del nostro, nel quale pagavamo un affitto. Era una questione sulla quale non avevamo mai trovato un’intesa; all’improvviso, sembrava che un anno dopo l’altro quella diatriba avesse scavato un solco sempre più largo e profondo. Ormai ci guardavamo da rive opposte e tanto lontane da non riuscire più a parlarci.
Credo di avere iniziato a prendere in considerazione una rottura il giorno in cui decisi di saltare sopra un aereo e trascorrere il Natale a Tenerife con mio padre, lo zio Attilio ed Ester. Avevamo l’abitudine di festeggiare insieme il Natale dai genitori di Giovanna, mai miei non se la sentivano più di affrontare il viaggio. Passai una giornata allegra, e ripartii a malincuore.
Eppure, mi stavo nuovamente adagiando nella consueta inettitudine, giustificandomi con la considerazione che ormai era troppo tardi per qualsiasi cambiamento radicale.
Era la prima volta che ci separavamo il giorno di Natale, abbiamo finto di non dare importanza a quell’ulteriore allontanamento.
“Avresti dovuto imparare a stare da solo, prima di prendere una decisione del genere. Perché vedi, un giorno ti toccherà farlo e forse non sarai preparato”, aveva detto il nonno il giorno delle mie nozze, cercando di addolcire l’osservazione con il sorriso di chi si scusa per un’impertinenza.
Di certo, la frase mi tornò alla memoria in quel mattino, insieme all’evidenza che ho sempre preferito nascondermi dentro un noi, per quanto provvisorio e ingannevole, rimandando l’impegno di determinare un io che è rimasto un abbozzo incompiuto.
Poi, l’altra sera, il manieroso avvocato del popolo (fin qui colpevolmente ignaro di avere bisogno di un avvocato) nonché cultore della pochette da taschino, il Presidente del Consiglio accidentalmente piovuto da un pianeta improvvisato, ha annunciato la firma del decreto #iorestoacasa.
In breve, dovremo stare tutti chiusi in casa, appendere le nostre vite a un chiodo almeno per un po’. D’altra parte, tale extrema ratio era nell’aria da qualche settimana insieme al virus che prima sembrava una banale influenza, poi è divenuta un’epidemia e ora è una pandemia.
Pandemia, parola sino a questo momento non sconosciuta, ma certamente ignorata.
70 metri quadri e un terrazzino, noi tre chiusi dentro. Discorsi silenzi idiosincrasie rituali quotidiani delusioni sedimentate sentimenti sbiaditi orizzonti angusti occupazione di spazio fisico che diventava comune, inappellabilmente condiviso ogni giorno, per tutto il giorno, giro d’orologio. Nessuna via di fuga, niente negozio, nessun contatto con gli altri se non per fare la spesa.
Così, ho deciso di agire in anticipo, per la prima volta nella mia vita, e oggi me ne vado da questa casa, a imparare a stare da solo. A sessant’anni è tardi, lo so, ma sono sempre stato in ritardo su tutto.
Sono entrato nell’appartamento in viale Romagna non per il solito veloce giro di ricognizione, bensì per rimanervi. Ho avuto l’impressione che quelle stanza amate mi cingessero in un abbraccio, un refolo d’aria proveniente da chissà dove mi ha sfiorato il volto con una carezza lieve. Sono un vecchio sentimentale in preda all’ebbrezza di chi scampa a un naufragio, tutto qui.
Teo e Ivano mi hanno accompagnato con un furgone a prelevare il resto delle mie cose, di sera per aggirare il divieto di circolazione. Giovanna e mia figlia sono rimaste chiuse in cucina per tutto il tempo ed è stato piuttosto imbarazzante. Mi sono congedato senza nessuna nostalgia per quei locali che ho sempre percepito come angusti, dove tuttavia sono anche stato bene.
Mi accomodo sulla vecchia poltrona del nonno: avrebbe bisogno di un rivestimento nuovo ma temo che cancellerei la sua impronta, quindi lascerò perdere.
Molti dicono che usciremo migliori da questo brutale isolamento, io non lo credo affatto, prevedo che ci scanneremo sulle questioni più disparate a causa degli spazi ristretti in cui siamo confinati, del tempo troppo vuoto e della possibilità di sproloquiare in rete comodamente da casa. Per la misura dei metri quadri a disposizione io rappresento un’eccezione fortunata, anche se per via di questo fottuto lock down dovrò arrangiarmi a pulire tutto quanto da solo. Sarà bene circoscrivere il mio quotidiano in poche stanze, chiudendo le altre.
Nel frattempo, a Milano contempliamo dai balconi la primavera più sincera degli ultimi vent’anni, altra evidente dimostrazione del fatto che le cose ci sono ormai sfuggite di mano.
Ho fatto qualche giro furtivo fino al negozio, giusto per accertarmi che sia ancora lì, la saracinesca abbassata e l’allarme inserito a proteggere una parte importante del mio mondo. Mi manca l’odore ferrigno e grasso delle biciclette, soprattutto mi mancano i vecchi clienti di mio padre e dello zio, ciclisti in disarmo che non mancavano di passare dal negozio per ritrovarsi, curiosare e fare quattro chiacchiere. Nell’ampio retrobottega ho piazzato due panche di legno, un televisore e anche una macchinetta per il caffè espresso, in modo da poter seguire assieme le tappe del Giro e del Tour. Questa mia innovazione aveva fatto ridere il papà e lo zio Attilio, che affermarono che sarebbero tornati a Milano solo per presenziare a quelle riunioni. La notizia della mia separazione non li ha sorpresi, se l’aspettavano già da Natale. Ci sentiamo più volte al giorno: loro si preoccupano per il mio spirito, io per la loro fragile salute di ottuagenari di fase due avanzata, come amano definirsi.
Sto attaccato al telefono e al pc più di quanto dovrei, invidio tutti coloro che hanno un cane da portare fuori e, ciononostante, non mi decido ad attuare l’operazione che non ho fatto negli ultimi vent’anni, ovvero mettere le mani nei cassetti dello scrittoio del nonno: mi trattiene ancora la nostalgia e anche una forma di riguardo, sapendo quanto fosse riservato.
Invece, mi metto nuovamente a rovistare in rete per scovare qualsiasi notizia su Mara, con il consueto esito negativo. Come può al giorno d’oggi una persona di discreta fama, seppure in un ambito non proprio popolare, occultarsi con tanta efficacia? La sua biografia su Wikipedia – perché ne ha una , da cui non risultano mariti né figli – si interrompe al 2000, anno di pubblicazione del suo ultimo libro dal titolo intrigante e, per me, inequivocabilmente significativo: “Sulla materia oscura di Aldebaran”.
Il cielo si colora di rosa e violetto in un beffardo tramonto milanese che prelude a una notte serena: Se non ci fossero tante luci artificiali, forse potrei ritrovare Aldebaran.
Chiudo gli occhi, che il filo dei pensieri si annodi e snodi come gli pare, non mi oppongo.
Non è Aldebaran l’astro che cerco, non più, bensì quell’io incompiuto che si è sempre aggrappato a un noi.
Non proverò neanche a far quadrare un bilancio che non torna nemmeno alla Vanoni, in una delle sue canzoni più belle e destinata a durare ben oltre la sua prevedibile scomparsa. A dire la verità, a dispetto della mia assodata deficienza di tempismo (e di tempestività), finora ho avuto una buona vita: una famiglia un poco stravagante eppure affettuosa e solidale, un’occupazione gradevole, indipendente e bastevolmente redditizia, una salute invidiabile e anche un aspetto piacevole. Ho amato profondamente e sono stato a mia volta amato profondamente ma non dalla stessa persona; siccome il destino è perfidamente disattento nel dare le carte, tutto quell’amore a senso unico è andato sprecato, e questo è il conto che non tornerà mai.
“Non potrò più perdonarti,” ha mormorato Giovanna prima di chiudere una telefonata, qualche giorno fa. Mi accusa di avere disatteso un impegno rinunciando a un progetto comune, mentre la sola cosa per la quale non dovrebbe perdonarmi è il fatto di esserle rimasto accanto per tutto questo tempo senza amarla abbastanza.
Sono stato accomodante per ignavia e disonesto per pigro opportunismo. Alla fine dei conti (proprio quelli che non intendevo fare), sono soltanto un povero stronzo: non un granché, come compagnia.
Sto per addentrarmi in un’ineludibile fase di ripiegamento, una sorta di viaggio di ritorno, dalla durata incerta e non prevedibile, verso il nulla da cui sono uscito per caso sessant’anni orsono. Inutile e sciocco contare sugli ultimi guizzi di vigore apparentemente inalterato, l’andamento di certe dinamiche diventa sempre più difficile da comprendere o, se va bene, per arrivare ad afferrarlo mi occorrono tempo e impegno. La ragione è crudelmente semplice, sono un uomo del secolo scorso.
Ho condiviso queste meditazioni in una lunga telefonata a tre su Skype con Ivano e Teo. Ci conosciamo da tanto tempo, e il nostro legame è diventato sempre più profondo con l’avanzare dell’età. Ivano è separato dal ’95 e non ha figli; ha convissuto per diversi anni con una compagna che a un certo punto se n’è andata. Ora è felicemente accasato con un gatto dalla pelliccia tigrata di un bel colore fulvo che gli concede la sua benevolenza con moderazione tipicamente gattesca. Lo ha chiamato (allusivamente) Bowie , nome di cui l’animale appare davvero compiaciuto. Teo, invece, continua a comportarsi come un traditore seriale, ma ancora oggi afferma che non gli è mai accaduto di incontrare una donna con la quale volesse condividere tutti e sette i giorni della settimana, a parte sua moglie.
Comunque, dopo avere ascoltato il mio amaro sproloquio, il primo ha commentato che mi sto rincoglionendo, il secondo che farei bene a riprendere a farmi delle canne di buona qualità. Potrebbero avere ragione, tutti e due.
“Mi dispiace tanto, Giovanna, è finita e non so cosa farci. So che voglio stare da solo, e non si tratterà di un periodo di riflessione, ho già riflettuto abbastanza”.
Ero certo che dopo un gesto tanto coraggioso mi sarei scrollato di dosso il malessere indefinito che mi intorpidiva da tanto tempo, lasciandomi incerto tra una serena rassegnazione e un senso di fastidio incombente ed è così, però sto scivolando dentro un’inedia triste.
La reclusione coatta mi pare un’altra deprimente conferma del mio ritardo reiterato, e non è certo in quest’anomalia che avrei voluto vivere i miei giorni da uomo libero e solo.
Stamattina mi sono alzato anche troppo presto per affrontare una giornata che posso prefigurarmi noiosamente priva di impegni e di imprevisti, una manciata di ore da cincischiare e spiegazzare sperando che si consumino in fretta, aspettando che arrivi la notte, e poi un altro giorno esattamente uguale. Ho scoperto che cos’è la noia: alcune cose che mi hanno sempre dato piacere come la lettura, la musica, qualche bel film, anche l’ozio, sono meno gratificanti se non devo fare lo sforzo di ricavare loro dello spazio in un contesto già occupato, se non costituiscono più un’alternativa.
Esco per recarmi all’ipermercato più vicino per comprare delle provviste di cui non ho bisogno; i volontari della protezione civile regolamentano gli ingressi, ne entra uno non appena uno esce e così via; ci aggiriamo tra le file semi deserte, tra gli scaffali colmi di merci improvvisamente insignificanti, inseguiti da una voce cortese che dagli altoparlanti invita a mantenere le distanze. La galleria dei negozi è buia perché sono tutti chiusi. Mi accodo alla fila disciplinata di persone barricate dietro una fragile mascherina, sguardi attenti e preoccupati; sembriamo chirurghi in procinto di entrare in sala operatoria, solo che sul tavolo potremmo trovare il nostro corpo.
Sono tornato a dormire nella mia vecchia camera, sul piano della scrivania a rullo ho sistemato il pc e passo buona parte del tempo in questa stanza. Mi sono sempre piaciuti i tiretti che completano la parte superiore della scrivania e contengono i tesori del nonno: tre castagne matte da tenere in tasca in inverno, per evitare il raffreddore, diverse 500 lire d’argento, una stilografica Pelikan verde e nera, diversi orribili “ricordini” in bianco e nero di amici defunti, una boccetta d’inchiostro blu ormai secco, alcuni piccoli calendari raffiguranti donne poco vestite (quelli che una volta regalavano i barbieri a Natale), graffette arrugginite, un sacchetto di tela con le biglie di vetro colorato con le quali giocavo in estate, quando andavamo dallo zio Luciano e dopo pranzo mangiavo un bastoncino di liquerizia intinto nel limone tagliato a metà.
Nella cassettiera sul lato destro ho rinvenuto altra cancelleria e il grande astuccio rigido in similpelle con l’indispensabile compasso, con cui non credo di avere mai tracciato un cerchio, e l’utile goniometro, con cui sono certo di non avere misurato alcun angolo.
L’ultimo cassetto è più alto degli altri ed è interamente occupato da una scatola da scarpe, la scritta Quinté impressa in corsivo nero sul coperchio bianco. Strana idea, conservare delle scarpe in un cassetto della scrivania, persino per un’tipo estroso come il nonno. Infatti, non trovo calzature nella scatola, bensì cartoline, tutte indirizzate al Gentile Signor GELMINI UMBERTO con una grafia grande e appuntita.. Le conto velocemente: sono divise in 5 pacchetti, ognuno con 50 cartoline legate da un pezzetto di spago. Fanno 250 stampe provenienti da luoghi diversi, molti esotici e dai nomi evocativi: Samarcanda, Jerico, Cienfuegos, Alicante, Sebastopoli, Trinidad, Timbuktu.
La singolare e corposa corrispondenza inizia nel gennaio del ‘75 e si interrompe nel gennaio del 2000, pochi giorni prima della morte del nonno.
25 anni, 10 cartoline per ognuno di essi, raggruppati per quinquenni. 5 e multipli di 5; elaboro congetture su questa constatazione, aggiungendo che avevo 5 anni allorché io e mio padre, insieme allo zio Attilio, ci trasferimmo in questa casa ed era il 1965. Conobbi Mara nell’80 e mi lasciò, di fatto, alla fine dell’85, dopo 5 anni. Tutto appare decisamente esoterico e poiché non appartengo ad alcuna schiera di eletti la conoscenza profonda di questa sequenza è per me inarrivabile.
Mara sosteneva che i numeri hanno sempre un significato occulto che trascende il loro valore finito, rendendoli di fatto tutti infiniti. Per quanto tale asserzione fosse innegabilmente suggestiva, non l’ho mai presa molto sul serio; tuttavia, oggi mi trovo a riconsiderarla.
Esamino il primo quinquennio e mi colpiscono due dettagli: il messaggio è sempre il medesimo: Un caro saluto da…con il nome della localitàe la firma, A. Non una parola di più, nemmeno negli anni successivi, come rivela un rapido esame. La seconda è che la corrispondenza si apre con una foto in bianco e nero dai bordi frastagliati incollata su di un cartoncino color seppia, dentro una pesante busta dello stesso colore. Un caro saluto da Parigi, A., e un altro aspetto strambo è che la foto ritrae una tomba famosa al cimitero Père Lachaise: FAMILLE GASSION PIAF, dice l’iscrizione sul marmo, è la tomba di Edith Piaf, defunta nel ’63 a soli 47 anni, e qui di 5 non ce n’è neanche uno. Rammento che il nonno Umberto canticchiava spesso un suo brano celeberrimo, Non, je ne regrette rien, dunque una rappresentazione di Parigi tanto inconsueta deve avere il senso di un messaggio il cui contenuto è noto solo al nonno e ad A., chiunque sia.
Per la quantità di personaggi illustri le cui spoglie giacciono al Père Lachaise, lo si potrebbe considerare come il posto dei non morti o degli eterni: Chopin, Balzac, Wilde, Proust, Molière, la Callas e poi Jim Morrison, sulla cui morte effettiva qualcuno ancora dubita ed era nato a Melbourne, sotto lo stesso cielo dove è svanita Mara.
Se intendessi dimostrare che nessun evento è stocastico, perché anche il fatto apparentemente più irrilevante concorre alla formazione di un disegno di cui ci sfuggono forma e ampiezza, ecco un altro indizio: replicando alla mia osservazione sulla scarsa poeticità degli astronomi, che sono soliti indicare gli astri di recente scoperta con fredde sigle alfa numeriche, Mara mi rivelò che nel 1982 l’astronoma Ljudmila Georgievna Karackina, grande ammiratrice della Piaf, volle dedicare un nuovo asteroide proprio all’artista straordinariamente talentuosa dalla vita breve e maledetta nonostante la fama, chiamandolo 3772 Piaf.
Mi chiedo perché mai il nonno abbia suddiviso la corrispondenza in quinquenni ma, soprattutto, mi domando se le motivazioni che portarono A. in tanti Paesi differenti e tra loro distanti, per 25 anni, siano riconducibili a una professione o, piuttosto, a un’irrequieta curiosità. O, ancora, alla necessità di fuggire. Frugo nella memoria alla ricerca delle persone che hanno frequentato casa nostra oppure che mi è capitato di incontrare girando per Milano con il nonno. Non ricordo nessuno con il nome che iniziasse per A, che tuttavia potrebbe anche indicare un cognome. Mi convinco che questa persona dovesse essere più giovane del nonno, dato che ha continuato a viaggiare fino all’inizio del 2000.
Smirne, Sebastopoli, Nashville, Sapporo, Hanoi, Salonicco, Kuala Lumpur, Nantucket…
Fuori si sta facendo buio, accendo più luci di quante me ne occorrano per vederci, devo rompere un silenzio denso in fondo al quale percepisco un brusio indistinto, un rumore di fondo disturbante. Tra i tanti vinili che ho accumulato nel tempo e che raccontano la mia età e la mia storia, come i cerchi all’interno del tronco di un vecchio albero, ce n’è uno che in questo momento esercita su di me un richiamo inconscio. Poso la puntina tra i solchi con estrema attenzione, voglio incominciare da una traccia particolare. Dopo alcuni istanti di lievi fruscii a cadenza circolare, parte la batteria, un loop lento e quasi carezzevole accompagnato dal sintetizzatore ma presto si affaccia un meraviglioso riff di chitarra elettrica, distorto e potente: è la versione di “Dead Souls” dei Nine Inch Nails, brano inserito nella colonna sonora di un film gotico e maledetto, “Il Corvo”. La morte del protagonista Brandon Lee (drammatica replica di quella del padre Bruce) durante le riprese assegnò alla storia una grandezza tragica che forse non aveva ma magari invece sì, dato che contiene quell’accidentale elemento nefasto. “Non può piovere per sempre”, dice il Corvo Eric alla sventurata ragazzina Shelley ed è certamente vero. Vale per molte altre cose, niente può durare per sempre, eppure non so se ne sono ancora sicuro oltre ogni irragionevole dubbio.
“…They keep calling me, keep on calling me…, continuano a chiamarmi. Non proprio l’ideale per dissipare l’inquietudine che mi a pervaso e che, in effetti, non intendo scacciare: voglio decifrarne il codice arcano.
Mi sono dimenticato di cenare, la luce delle lampade proiettta ombre lunghe, il silenzio è interrotto da brevi e rari rumori esterni. Mi sono seduto sul parquet, offeso in più punti dalla memoria dei tanti oggetti che ci sono sfuggiti di mano, di una sedia sbadatamente trascinata, di sassolini incastrati nella trama della suola di certe scarpe. Nel corso degli anni il messaggio vergato sulle cartoline non è mai mutato e neanche la firma, la calligrafia ha mantenuto il medesimo tratto deciso, quasi imperioso. Ho visto paesaggi agresti, monumenti, strade e piazze, spiagge e distese d’acqua. L’ultima cartolina, tuttavia, rivela due sorprese: è stata scritta nel gennaio del 2000 ma si tratta di una vecchia stampa in bianco e nero, con la scritta in basso, caratteri in corsivo bianco; Milano, via Dante.
In base ai miei ricordi, l’immagine risale ai primi anni ’70 e ritrae il tratto di via più prossimo a Largo Cairoli; si scorgono alcuni negozi di un certo pregio e l’ampia vetrina di Richard Ginori, all’angolo con via Giulini. Oggi la via è una miserabile sequenza di dehors di bar per turisti, locali dozzinali al pari dei numerosi esercizi commerciali sulla via, ma allora era una strada di sobria eleganza. Comunque, la cosa più sorprendente è il messaggio: A presto, con tutto il mio amore, A., e ciò risolve ogni dubbio sulla natura del legame tra il nonno e quella persona, che rimane sconosciuta.
Ora è necessario che io smetta di esistere, almeno per alcune ore, lasciando che onde elettriche lunghe e lente, come una marea gentile, durante il sonno ripuliscano il mio cervello, traducendo connessioni disorganizzate in conoscenza.
Al nonno non piacerebbe vedere le sue cartoline sparpagliate sul parquet, ma ci penserò domani.
Mi risveglio con la sensazione di avere dormito tantissimo, invece mi sono coricato che era mezzanotte passata e fuori dalla finestra il cielo si sta appena rischiarando in un inutile tripudio di rosa e violetto, con la luce dell’alba che riversa bagliori gialli. Percepisco un odore strano, è il sentore dolce e affumicato del latte bruciato quando, durante l’ebollizione, trabocca dal pentolino riversandosi sul fornello, cosa che al nonno Umberto succedeva con regolarità sorprendente. Lo sento con tanta convinzione da stupirmi di trovare il piano cottura perfettamente pulito, constatazione di cui sono scioccamente deluso. Avendo digiunato ieri sera ho una fame imperiosa, così mentre mi preparo il caffè mi infilo in bocca manciate di cereali prelevati direttamente dalla scatola, gesto assai gratificante che Giovanna e mia figlia hanno sempre trovato insopportabile.
Allora decido di fare una cosa ancora più sconveniente: prendo degli avanzi di pane raffermo e li spalmo di burro e gorgonzola, come mi aveva insegnato a fare il nonno Umberto quando ci trovavamo a casa dello zio Luciano, con la raccomandazione di evitare di riferirlo al papà.
Rifletto sulla mia scoperta di ieri; mi sono appena collegato su Skype con Teo e Ivano e per qualche ragione che non so spiegare non vi ho nemmeno accennato. Ne ho taciuto anche con il papà e lo zio, che stanno bene e si godono la tranquillità dell’isola in assenza di turisti.
Tutta questa storia rassomiglia molto a uno dei racconti del nonno Umberto. Non erano le solite favole riservate all’infanzia ma narrazioni frutto della sua fantasia: avventurose, improbabili, contro deduttive, piene di colpi di scena e di personaggi strampalati, e tutte egualmente prive di un finale. Penso che a un certo punto il nonno si ingarbugliasse nelle sue complesse invenzioni, o che, semplicemente, si stufasse di raccontare.
Io non ero affatto deluso da tali brusche sospensioni, perché potevo riempire quello spazio vuoto con la mia immaginazione e figurarmi diversi esiti o nessuno, in modo che certe vicende fossero sempre suscettibili di sviluppi inattesi. Così, c’erano storie che non finivano mai.
Più tardi uscirò per andare a comprare il pane nel vecchio negozio che si trova vicino alla Casa dello Studente. In questi giorni dalle finestre dello studentato esce solo silenzio, eppure ogni volta che ci passo davanti giurerei di risentire le nostre voci di ragazzi, ammassati in una stanza a disquisire sui pericoli insiti in tutte le teocrazie, sugli effetti dell’imperialismo statunitense e sul ruolo della CIA in molti colpi di stato in giro per il mondo. In quel periodo pencolavamo indecisi tra i due fronti contrapposti della guerra fredda,con la netta propensione a rigettarli entrambi.
Darò prima un’altra occhiata alle cartoline che ho abbandonato sul pavimento della mia camera, poi le rimetterò dove le ho trovate e, presumibilmente, continuerò a pormi domande a cui non troverò risposte convincenti. Apro le finestre e allora mi accorgo che sul parquet non c’è nulla: la scatola del Quinté giace sul piano dello scrittoio e contiene la corrispondenza nell’ordine esatto in cui l’ho trovata, 5 pacchetti da 50 stampe, ognuno relativo a un quinquennio. Sarei pronto a giurare di essermi coricato lasciando tutto per terra, dunque sono alquanto confuso, sebbene creda che ci sia una spiegazione del tutto plausibile: soffro di sonnambulismo. Avevo appena iniziato le elementari quando capitava che i miei mi sorprendessero a vagare di notte per casa, intento nelle azioni più varie e spesso insensate, apparentemente vigile eppure non cosciente. Seguendo il suggerimento del medico, non intervenivano in alcun modo, limitandosi a vigilare affinché non mi facessi del male o non provocassi danni gravi. Avevo trasferito queste informazioni a Giovanna ma dopo il matrimonio si verificarono appena pochi episodi, molto distanziati nel tempo.
Probabilmente, la separazione e la segregazione di queste settimane si configurano come criticità capaci di riattivare il mio disturbo.
Per prudenza, d’ora in avanti bloccherò le tapparelle con i chiavistelli montati a suo tempo dal nonno per evitare che saltassi da una finestra; nasconderò anche le chiavi di casa in un cassetto, sperando di ingannare il me stesso in versione di incosciente vagabondo notturno.
Tuttavia, mi desta qualche perplessità la presenza di un oggetto posato di fianco alla scatola: è un piccolo elastico tondo rivestito in tessuto e decorato con una stellina di legno dipinta di rosso. Mara usava questi aggeggi per chiudere la sua lunga treccia ed è stata in questa stanza molte volte, perciò potrebbe averlo perso e il nonno deve averlo ritrovato chissà quando, decidendo di conservarlo in uno dei minuscoli tiretti dello scrittoio, ciò che è piuttosto strano è che ieri sia ricomparso insieme ad altri cimeli e io non lo abbia notato.
Ci sto ancora pensando mentre aspetto il mio turno davanti alla panetteria, a rispettosa distanza dagli altri clienti mascherati (nel senso di muniti di mascherina) in attesa sul marciapiede. Da giorni presto attenzione agli sguardi, nei volti dalla fisionomia parzialmente celata sono sempre in primo piano: ne scorgo di tristi e di arrabbiati, di smarriti e di curiosi, di rassegnati e di interrogativi, di scocciati e di apatici, e anche di appannati per effetto del vapore che il respiro deposita sulle lenti degli occhiali. Li inserisco nella categoria dei non classificabili.
Esco dal negozio con il sacchetto pieno di michette ancora calde e fragranti, qui continuano a farle come si deve, vuote e con la sommità sottile come una sfoglia, racchiusa nelle punte dei cinque spicchi che compongono la forma.
Avrei bisogno del gesto liberatorio di disfarmi della protezione fastidiosamente fissata alle orecchie e addentare una mchetta tiepida camminando per strada, mentre i raggi di un bel sole primaverile iniziano a scaldarsi. Giro un angolo, non c’è nessuno, lo faccio con un senso appagante di sfida, lascio cadere briciole per i passerotti sul marciapiede.
Dopo pranzo mi sento insolitamente stanco – anzi, rallentato, come se camminassi nell’acqua – e non posso fare altro che abbandonarmi al torpore che ne consegue.
Abbasso un poco la tapparella e mi sistemo sulla poltrona del nonno. C’è un immobilismo perfetto che si avvolge e riavvolge su se stesso, in una stupefacente successione reiterata spazio temporale; è saturo di storie, emozioni, frammenti di memoria che ricompongono una trama di affetti cristallini
Invece, ho sognato ciò che riconosco con certezza come un ricordo. La scena si riproduce nitidamente nella mia mente mentre la debole luce del tramonto si sta insinuando nella camera, posando ombre sui muri.
È una bella giornata, forse in primavera avanzata perché mi rivedo in braghette corte e maglietta, la mano saldamente ancorata a quella del nonno. Ci troviamo allo Zoo dei Giardini Pubblici davanti alla gabbia della tigre, Panthera Tigris.
Il felino è placidamente sdraiato su di una tavola fissata alla parete di fondo della gabbia ridicolmente angusta, lo sguardo di un limpido verde dorato passa attraverso la mia persona e punta verso un altrove indefinito. Tiene le fauci semi aperte, il respiro corto e breve, deve patire il caldo. Ne annuso l’odore greve da carnivoro recluso in uno spazio ristretto, lo trovo disgustoso e irresistibile.
Dico al nonno che voglio entrare nella gabbia, avvicinarmi alla tigre e toccarla; mi spiega pazientemente che non si può perché non è cattiva, ma l’istinto le dice che per lei sono solamente cibo. Ci rimango male, poi sono distratto dal volo ondivago del palloncino il cui filo mi è appena sfuggito di mano: è uno di quelli grandi e con il nasone, che probabilmente raffigura un papero. Sono rattristato per averlo perso, eppure esaltato dal suo librarsi in alto nel cielo, e mi chiedo cosa ne sarà di lui.
La proiezione della memoria si interrompe sul fotogramma di me bambino, il naso per aria, a inseguire con lo sguardo una magnifica metafora di libertà. Allora penso una cosa che mi fa sorridere perché è così bella, nella sua ingenua insensatezza: le stelle sono come i nasuti palloncini della mia infanzia. Sono legate a un filo e se quel filo si spezza volano talmente in alto da scomparire per sempre alla nostra vista.
Però, adesso non so davvero spiegarmi cosa ci faccia, uno di quei palloncini mollemente adagiato sul soffitto della mia camera. Ondeggia pigramente, cullato da un respiro impercettibile.
Forse, se aprirò la finestra volerà via, per sempre.
“Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparirebbe all’uomo come realmente è: infinita”.
(da “The marriage of Heaven and Hell”, William Blake, 1790-1793)