CHIARI DI LUNA

 Laggiù, in quella campagna avara che assediava un borgo di poche case piazzate in mezzo a un niente metafisico, con spigoli netti e tagli di luce che parevano usciti da una tela di De Chirico, il boom economico che trasformò l’Italia negli anni ’50 e ‘60 non arrivò mai. Erano in pochi prima della guerra, dopo ne rimasero ancora meno. Naturalmente, si conoscevano tutti, spesso erano anche strettamente imparentati tra loro, tanto che si somigliavano un po’ tutti: corti e scuri, fattezze grossolane, corpi resistenti agli strapazzi e destinati a consumarsi precocemente, qualche tara dovuta a un eccesso di consanguineità.

Anche Assunta e Pietro erano così; perciò, quando nacque il loro primo e unico figlio, soprattutto a mano a mano che cresceva, anche il più tonto si trovò a domandarsi da dove venisse. Qualche vecchia storta arrivò persino a bisbigliare che fosse figlio del Demonio. Di carnagione chiara, già a sette anni inusualmente alto per un bimbo della sua età, aveva capelli lisci e così biondi da sembrare argentei, con una rosa ribelle su una tempia che generava una piccola onda indomita, occhi dello stesso celeste pallido del cielo afoso e lineamenti fini, quasi femminei, oltre a una spiccata abilità nel sottrarsi alla fatica e alle botte conseguenti, perché correva veloce.

Pure Pietro si chiedeva da dove – da chi – arrivasse, ma quando interrogava la moglie usando più le mani delle parole, quella taceva e incassava. Una sera d’estate Pietro non tornò a casa dai campi e non ricomparve neppure nei giorni seguenti. In paese se ne accorsero, perché l’uomo andava a ubriacarsi tutte le sere  nell’unica osteria che era anche tabaccheria e rivendita di pane e alimentari. Qualche giorno appresso, in cascina si presentò il sindaco (e proprietario dell’osteria), il quale finse di non vedere i lividi sul volto e sulle braccia di Assunta. Dopo qualche cauta domanda, le aveva consigliato di sporgere denuncia per la sparizione del marito. La donna si era stretta nelle spalle senza alzare lo sguardo e continuando a spennare il pollo defunto che reggeva tra le ginocchia.

“…ma io lo so dov’è, poi magari un giorno o l’altro torna”.

Madre e figlio lasciarono il paese prima che ciò accadesse, poche settimane dopo.

Pietro non fece mai ritorno, nemmeno in seguito.

Le speranze di estrarre vivo dal pozzo di Vermicino il piccolo Alfredo si schiantarono contro l’evidenza della sua morte, il 13 giugno del 1981. L’Italia intera si commosse, l’Elvira pianse anche se non era madre, tuttavia fu presto distolta da un’altra faccenda,  a lei molto più vicina, di cui doveva occuparsi.

Seduta a braccia conserte, la robusta figura impettita (un po’ per avere una visuale più ampia senza doversi sporgere dalla vetrata scorrevole della portineria, aperta  per metà, un po’ per esprimere la sua riprovazione a prescindere), l’Elvira seguì con lo sguardo il giovanotto aitante e ben vestito. Procedeva a passo spedito verso la scala A dell’immobile signorile in Corso Magenta, austero quadrilatero che racchiudeva una piccola corte, al centro un’aiuola ospitante una grande magnolia, su cui affacciavano gli appartamenti. Ormai sapeva arrivare all’uscio della signorina Ornaghi senza l’ausilio delle indicazioni della portinaia.

“Hai visto, Delfo? Di nuovo quel bel ragazzone che sale dall’Ornaghi, è la terza volta in una settimana. A me ‘sta cosa puzza, lui giovane e bello, lei no tutt’e due le cose ma carica di soldi, quello sì”, disse l’Elvira al marito, appena rientrato.

“Già, e direi che sono affari della signorina Ornaghi”, fece quello tentando di tagliar corto.

Intanto però a me il ragionier Bianchi, l’amministratore condominiale, rompe le balle che devo tenere le scarpe tutto il giorno per una questione di decoro, decoro! A me ora di sera si gonfiano i piedi per il decoro e poi quella lì…”

“…ma tu le scarpe te le togli di nascosto, quando sei seduta”

“…e allora?”

“E allora, anche lei, e impara a farti i cazzi tuoi”

“Maleducato”.

Era ora di chiudere la portineria e ritirarsi nelle due stanze adiacenti, dove abitavano a titolo gratuito in cambio della reperibilità notturna pretesa dai condomini paventando imponderabili emergenze. Da quando Delfo era andato in pensione, dopo aver trascorso quarant’anni guidando i camion della spazzatura, con il suo assegno mensile come unico sostentamento arrancavano verso la fine del mese con il fiato corto, così avevano accettato il lavoro di custodi in un rione dove non potevano permettersi di fare la spesa nei negozi di vicinato. Per giocare a carte con gli amici del Lorenteggio, quartiere dove entrambi erano nati e da cui non si erano mai spostati, l’uomo doveva prendere il tram ma già che c’era faceva provviste al vecchio mercato rionale, dove lo conoscevano anche i banchi.

L’Elvira si figurò il marito, il quale di lì a poco avrebbe preso a girare ciabattando per quei pochi metri quadrati: spalle spioventi, gambette scarne e ventre prominente, capelli ancora scuri ma proprio pochi. Suo malgrado, si trovò a correre dietro a un rovello peregrino che ormai non le dava pace.

Hai capito quella zoccola della signorina Ornaghi, sempre rigida come un manico di scopa. Chissà dove lo ha pescato quel bel tipo, e certo vederselo girare per casa in mutande, insomma, altro che il Delfo.

E pensare che se alla fine di questa storia qualcuno ne avesse rivelato all’Elvira ogni dettaglio, con la stessa meticolosità perversa applicata alla tragica vicenda di Vermicino, per una volta tanto sarebbe rimasta senza parole, almeno per un po’.

Era la metà di giugno, in quei tristi parallelepipedi a due piani dal tetto piatto (per risparmiare anche sulle tegole) che erano le case minime di via Carbonia si crepava già di caldo, benché fossero appena le sette del mattino. Le poche finestre erano posizionate sullo stesso lato del minuscolo alloggio e, insieme all’ingresso, si aprivano sul ballatoio, condiviso con altri inquilini. Vigeva quindi la medesima promiscuità delle vecchie case di ringhiera, mancava tuttavia la gentilezza ariosa del ferro, sostituita dalla pesantezza grisia del parapetto di cemento pieno. Disposte a schiera, le costruzioni sul davanti disponevano di un modesto spiazzo racchiuso da un basso muro sormontato da sbarre metalliche. Non un albero, un’aiuola o una panchina a rendere meno inospitale quel brutto esempio di edilizia popolare minimalista. A Milano ce n’erano diverse, di case minime, quelle di Vialba, nella periferia nord ovest, furono edificate nel ’37 per gli sfollati e gli sfrattati dalle vecchie case del centro, oggetto di riqualificazione. 

Nell’estate del ’40, a causa della posizione lineare e della struttura priva di tetto, i francesi le scambiarono per un avamposto militare e furono bersaglio del primo bombardamento sulla città, per fortuna con una mira sufficientemente imprecisa da mancarle.

Ormai erano prossime alla demolizione e agli occupanti sarebbero stati assegnati altri alloggi del Comune. 

Dirigendosi verso la fermata dell’autobus in via Arsia Max pensò che forse, finalmente, lui e sua madre sarebbero andati ad abitare in una casa decente, dove per andare al cesso non toccasse uscire sul ballatoio e trovarlo magari già occupato dal vicino. Anche nella malandata cascina giù al paese non avevano i servizi igienici all’interno, ma almeno quella fetida baracca piena di spifferi era usata solo dalla sua famiglia, che voleva dire lui, sua madre e suo padre. Già, suo padre. Chissà dov’era, quel disgraziato del quale non avevano mai sentito la mancanza, da quando se ne era andato. E la cascina, già un rudere quando l’avevano lasciata per venire a Milano, sedici anni prima, probabilmente era finita in malora, con tutto quello che c’era dentro. Non un granché, e niente che valesse la pena di portarsi dietro in quel trasferimento un poco frettoloso.

Aveva nove anni, rammentava due grosse valigie chiuse, per sicurezza, anche con le corde, un viaggio in treno che non finiva mai, noia gommosa dilatata all’infinito e, finalmente, la confusione meravigliosamente cacofonica della Stazione Centrale. L’entusiasmo dei primi tempi si era smorzato progressivamente davanti all’incalzare della realtà: l’avvenire brillante e comodo che si era raffigurato rimaneva un sogno o, peggio, un’illusione, il luccichio ingannevole di un miraggio.

Max, all’anagrafe Michele Sacco ma da quando stava a Milano si presentava come Max,  lavorava a una delle linee di montaggio dell’Alfa Romeo al Portello. Aveva compreso che le sue aspirazioni professionali non sarebbero andate oltre, sua madre faceva le pulizie dalle suore, alle scuole medie Pastor Angelicum di Vialba, abitavano in un posto schifoso: non era quella la vita che voleva, non era quella che gli spettava. Era prima di tutto una questione di soldi, i maledetti soldi. Giocando a carte nella saletta “riservata” (in realtà, un retrobottega) del Bar Quinto, nel vicino rione di Quarto Oggiaro, non solo non aveva risolto nulla, aveva anche accumulato qualche debito con gente con la quale era meglio non fare troppo il furbo.

Sarebbe stata una giornata lunga e la sera lo attendeva un secondo lavoro su cui aveva riposto, di nuovo, speranze che si stavano rivelando eccessive: gli girava un po’ di denaro in più nelle tasche, frequentava luoghi e persone che altrimenti non avrebbe neanche avvicinato, eppure la traiettoria della sua esistenza non si modificava di un millimetro.

Parliamoci chiaro, solo soltanto uno sfigato di bella presenza, e quest’ultima non durerà, concluse tra sé.  Si guardò attorno: quello era il suo mondo, il paesaggio urbano e sociale nel quale era destinato ad arrabattarsi.

Fece spallucce e scacciò dalla mente quelle riflessioni insolitamente pessimistiche. In fondo, c’era sempre l’imperscrutabile, quell’elemento di spariglio che, con un colpo di mano, cambia tutto e ti offre una seconda possibilità, come se la vita fosse un gioco che si può azzerare per ricominciare tutto daccapo. Si mise a fischiettare una canzone che gli era tornata in mente proprio in quei giorni: era la colonna sonora di un bel film che aveva visto nell’autunno precedente insieme all’amico e collega Vittorio, e intanto quel dannato bus ancora non si vedeva girare l’angolo di via Arsia.

…call me on the line,

Call me, call me any, anytime,

call me, I’ll arrive,

when you’re ready we can share the wine…

Quella sera, fuori dal cinema, Vittorio gli aveva prospettato la possibilità di un secondo lavoro definendolo facile, poco faticoso e abbastanza remunerativo. Gli aveva parlato di un’agenzia di cui era socio insieme ad altre persone esperte del settore (senza chiarire quale fosse); la clientela era composta da molte ricche signore che desideravano essere accompagnate a inaugurazioni, prime teatrali, convegni o semplici cene. Ciò che eventualmente succedeva al di fuori di questi servizi riguardava solo gli accompagnatori e le signore, “noi siamo persone serie, mica magnaccia”.

Max aveva capito al volo tutto quello che c’era da capire e aveva accettato senza titubanze, era di appetiti gagliardi e di gusti sufficientemente flessibili. Vittorio lo aveva istruito sui comportamenti da tenere, su come vestirsi in alcuni ambienti e persino sulla necessità di tenersi informati leggendo cose diverse dalla Gazzetta dello Sport, per poter sostenere un po’ di conversazione. Max si era prestato volentieri al breve tirocinio: ci teneva a distinguersi da tanti altri bei ragazzi piuttosto grezzi che popolavano le notti milanesi, sentiva di potersi permettere ambizioni più elevate.

Tuttavia, il compenso riconosciuto dall’agenzia era irrisorio e il solo modo per fare quattrini era, appunto, rendersi disponibili a offrire prestazioni differenti, peraltro richieste con una certa frequenza in maniera più o meno esplicita. Questo concedeva un margine di diniego, sebbene a volte rendesse più complicata la contrattazione.

Aurelia Ornaghi si guardò ancora una volta allo specchio a figura intera nell’anta dell’armadio: il semplice abito blu scuro le stava bene ma non poteva certo assottigliare più di tanto la figura massiccia, né disegnare un punto vita che non c’era, e le chanel dal tacco alto la facevano apparireancora più imponente conferendole in aggiunta un’andatura rigida, mentre le caviglie rimanevano tozze. I capelli lunghi di un bel biondo miele erano freschi di parrucchiere e ingentilivano un poco il volto dai tratti marcati e volitivi, segnato da qualche piega pronunciata. Forse avrebbe dovuto dar retta all’amica Atina e rivolgersi a un bravo chirurgo, via quelle rughe e via anche la gobbetta sul naso, i soldi certo non le mancavano. Sospirò, preparando il cestello per lo champagne da portare in terrazza, dove la cameriera aveva già apparecchiato il tavolo per l’aperitivo: tra poco il suo ospite sarebbe arrivato. Ospite, convitato, accompagnatore, amico. No, amico no; dopo più di tre mesi non sapeva bene come definirlo, ma amico, no. Oggetto del desiderio, di sicuro, fornitore di servizi, in una certa misura. Tutto si confondeva, appariva indefinito, improprio e, in fondo, irrilevante. Aveva ragione Atina, che bisogno c’era di inchiodarlo in una categoria?

Era stata lei a fornirle il contatto dell’agenzia che procurava “accompagnatori discreti e qualificati per occasioni mondane ed eventi vari”. Servizi di innegabile buon livello, anche se le tariffe, da pagare in agenzia in contanti, erano elevate.

Figlia zitella di una famiglia milanese blasonata i cui membri non avevano lavorato un solo giorno della loro vita, l’amica si divertiva a mettere in atto piccole provocazioni e stravaganze per causare imbarazzo in un ambiente profondamente conservatore come quello nel quale si muoveva. A un certo punto aveva incominciato a presentarsi al braccio di giovani di bell’aspetto, di volta in volta diversi ma similmente silenziosi e servizievoli, generando sconcerto e critiche più o meno velate.

Aurelia aveva deciso di seguire il suo esempio per diverse ragioni: per curiosità, per solitudine, e anche per una forma di rivalsa, di protesta sprezzante. La sua famiglia in certi salotti raffinati, dove si discettava di arte e di politica con la medesima competente lievità, era sempre stata magnanimamente tollerata per via del cospicuo patrimonio, ma venivano considerati degli arricchiti della provincia lombarda, dunque di rango irrimediabilmente inferiore.

Li chiamavano “i salumieri”, con perfida precisione.

Era stato il ramo materno ad arricchirsi fin dagli anni ‘30 con l’allevamento dei maiali a Ripalta Cremasca, dove si trovava anche il salumificio che si era via via ingrandito.

Suo padre, nullatenente dal tratto gentile poco propenso alla fatica, aveva assolto con diligenza al ruolo di principe consorte, per il quale aveva un indiscutibile talento.

 Dopo la nascita dell’unica figlia (alla quale aveva voluto attribuire il nome dell’auto che amava in quegli anni) aveva insistito affinché si stabilissero a Milano, perché questa potesse frequentare agevolmente le scuole migliori. Aurelia si occupava da sola dell’attività, con accortezza e ottimi risultati,  da quando aveva trent’anni e aveva già accantonato il progetto di formare una famiglia, quindi aveva tempo ed energie da dedicare al lavoro. Conscia dell’effetto combinato di un carattere dispotico è della scarsa avvenenza, era stata condizionata dal dubbio di poter suscitare interesse solo per i suoi soldi, perciò aveva coltivato tenacemente la diffidenza.

Era stato così che era arrivata alla cinquantina sempre più ricca e sola, forse anche per via dell’abitudine, sempre più radicata, a decidere e pensare unicamente per sé.

”Sai, molti di questi ragazzi si comprano con poco”, aveva chiosato Atina, con un sorrisetto malizioso sulla faccia dalla pelle innaturalmente tesa appaiata a una figura scarnificata dalle diete più irragionevoli, dopo averle confidato che la gamma delle prestazioni offerte era più ampia di quelle reclamizzate nell’elegante presentazione dell’agenzia. Aurelia non era interessata a soddisfare appetiti che neppure in gioventù erano stati rilevanti, la gratificava l’idea di scandalizzare e anche di passare qualche ora con un compagno piacevole da congedare sull’uscio di casa, a fine serata. Erano ragazzi educati e discreti, qualcuno anche un conversatore gradevole. Non immaginava certo che avrebbe potuto invaghirsi di uno di loro e di sentirsi inerme ed eccitata come un’adolescente a ogni incontro, cercato con i pretesti più improbabili.

 Era un ragazzo di una bellezza vagamente androgina, la figura flessuosa ed elegante, i modi gentili, l’aura emanata dalla sua persona rappresentava la sintesi perfetta dell’evanescenza. Incolto ma intelligente, pareva fatto di una materia plasmabile e capace di adattarsi a qualsiasi forma convenisse assumere. Elusivo per natura, nascondeva la sua inadeguatezza dietro la magnifica presenza e silenzi rispettosamente interessati, ma Aurelia si era accorta dell’avidità che guidava i suoi comportamenti, rendendolo potenzialmente disponibile a trattare su qualunque cosa. Ne era convinta, non certa; ciò che sapeva con sicurezza era che non sarebbe stata in grado di sopportare un suo rifiuto, per quanto garbato.

Aurelia s’immaginava la curiosità e le congetture di quella pettegola della portinaia, una capace di sollecitare la mancia se, nel perìodo antecedente il Natale, non era abbastanza solerte nel depositare la busta sul banco, cosicché più che un dono diveniva un balzello. Magari fossero state vere, le cose che quella dava per certe.

Preparandosi per andare a dormire, l’Elvira rovistò nella memoria alla ricerca di una raffigurazione di suo marito all’età di venticinque anni, suppergiù quella del giovanotto dell’Ornaghi (così le piaceva definirlo, con una perifrasi efficacemente allusiva).

 Un tempo, l’incontro tra l’Elvira e Delfo aveva generato una grande e drammatica  storia d’amore decisamente osteggiata dai familiari di entrambi i protagonisti.

la famiglia di lui sosteneva che  la ragazza avesse troppe pretese, quela di lei  riteneva che l’Elvira si meritasse qualcosa di  meglio di uno scalmanato che menava le mani volentieri (non era vero) e simpatizzava con i comunisti (era vero). Avevano tutti contro ma loro niente, tennero duro e si sposarono senza un soldo. Durante il primo anno affittarono una stanza ammobiliata da una vecchia signora che gradiva la loro compagnia e li aiutò come poteva.

Il vivere quotidiano si rivelò assai più complicato di quanto avessero previsto e i tentativi, regolarmente falliti, di procurarsi una progenie finirono per formare un grumo di afflizione comune e divisiva, ognuno sospettando l’altro di essere portatore di un difetto imperdonabile.

A venticinque anni, lui si presentava bruno e spavaldo, una bella faccia da malandrino per gioco, la parlantina svelta, una naturale propensione per lo sberleffo. Il tempo lo aveva ingobbito e schiacciato portandogli via anche un bel po’ di capelli, e incupito, mutando l’ironia in sarcasmo cattivo. Lei era bionda e allegra, genuinamente facile, generosa di curve e di rilievi che gli anni avevano sommariamente uniformato in un monoblocco cedevole. Dopo il matrimonio, le due famiglie mantennero una ragionevole distanza, soprattutto quella di lei: milanesi purosangue da molte generazioni, non apprezzavano affatto quei bergamaschi venuti giù con qualche piena. Il loro ostinato rifiuto nei confronti di Delfo si perfezionò con il disconoscimento della sua identità; sicché, se ne parlavano, non lo indicavano con il nome proprio ma semplicemente con lu, lui, pronome  in terza persona singolare maschile, declinato in dialetto milanese.   Purtroppo, a mano a mano che il tempo passava e i rancori sedimentavano, anche l’Elvira prese a pensare a suo marito definendolo per pronome. Eppure, la loro era stata davvero una grande storia d’amore. Era stata, per l’appunto.

Quella sera Max non aveva avuto tempo di accompagnare Virna fino a casa per poi tornarsene a Vialba. La ragazza non abitava lontano, stava in via Amoretti, nei pressi del Bar Quinto, ma doveva correre a cambiarsi, prendere l’Alfasud che stava pagando a rate e usava poco perché la benzina costava cara, precipitarsi in Corso Magenta. Gli era spiaciuto, però: stava diventando una consuetudine. Virna lavorava in un altro reparto dell’Alfa Romeo e l’aveva adocchiata in mensa, bruna e morbida, gli occhi da cerbiatta con le ciglia folte e nere, i fianchi rotondi e le gambe lunghe e slanciate, il portamento fiero di una regina creola. La aspettava all’uscita per tornare con lei (al mattino l’accompagnava in auto suo fratello, che era di strada), approfittava della vicinanza imposta dagli autobus affollati, le mani che si sfioravano sui tubolari metallici, i corpi che si toccavano appena ondeggiando durante la marcia. Sorrisi, parole, l’odore buono del suo fiato, quello più caldo della pelle.

Max era  biondo e bello, spigliato senza essere insistente, sapeva adattare la strategia di caccia alla preda. Eppure, non l’aveva ancora invitata a uscire, nonostante lo desiderasse (la desiderasse) al punto da pensarci troppo spesso

Lui, assiduo frequentatore di brughiere periferiche dove, sui sedili variamente scomodi di un’automobile, ogni notte si consumavano passioni profonde e amplessi casuali, non sapeva come affrontare Virna. Lo tratteneva il timore di sciupare qualcosa di cui non riusciva ancora a definire contorni e contenuti.

Ma quella sera era preso da una frenesia strana, come se tutto dovesse accadere o finire nel giro di poche ore. Mancava poco alla fermata di via Arsia e Max fu travolto dall’urgenza di definire il principio di un possibile futuro. Così, sotto lo sguardo implacabilmente curioso della signora occhialuta che sedeva di fronte a loro, in piedi e aggrappati alle apposite maniglie, non le chiese di uscire a bere una cosa l’indomani, sabato sera, prologo quattro stagioni di qualsiasi potenziale storia: le propose una gita sul lago Maggiore per la domenica.

“Passo a prenderti la mattina presto, andiamo ad Arona e prendiamo il battello, poi magari la sera mangiamo una pizza da qualche parte”.

Virna lo aveva guardato piegando il capo di lato, l’espressione seria si sgretolava sotto la pressione di un sorriso che nasceva negli occhi e lui, pur ritenendo di conoscere ragazze più belle, riconobbe qualcosa che gli anni non avrebbero mai guastato.

Poi aveva detto soltanto “sì”. Max intuì che non avrebbe mai dovuto fare lo sbaglio di scambiare la dolcezza di Virna per remissività.

Poco dopo, mentre si preparava per recarsi all’appuntamento fissato dall’agenzia, fischiettava di nuovo la canzone di Debbie Harry che aveva fatto da colonna sonora a quel bel film. Pensò che in fondo non c’era tanta differenza tra lui e il protagonista Julian Kay, a parte gli abiti di Armani e alcuni altri trascurabili dettagli.

Sua madre era appiccicata al televisore, avevano diffuso la notizia che il bimbo caduto alcuni giorni prima in un pozzo a Vermicino era morto sul finire della notte, senza che nessuna delle tante persone presenti fosse riuscita a salvarlo. Fu proprio quel clamore e la cocciuta osservazione di una tragedia per raccontarla a decretare l’inizio di un nuovo stile di narrazione dei fatti di cronaca.

 Prima di allora, una diretta televisiva tanto lunga e il puntiglioso racconto di un evento erano stati riservati solo allo sbarco degli americani sulla luna. Nemmeno per la strage di Piazza Fontana o per il sequestro di Moro c’era stato un resoconto ininterrotto e altrettanto meticoloso.

Almeno non è morto da solo, commentò tra sé Max, immaginando che spegnersi lentamente e in solitudine in fondo a un pozzo doveva essere proprio brutto.

Guidava di malavoglia verso Corso Magenta, notando che in un angolo del cielo ancora chiaro si affacciava già la luna a reclamare il suo tempo. Forse sarebbe stata una notte di luna piena. Gli venne in mente che da quando viveva a Milano aveva visto più spesso il cielo di notte che non di giorno, dato che nelle ore diurne stava chiuso in un  capannone dalle pareti altissime sempre illuminato dal bagliore malaticcio delle lampade al neon. Però, certi chiari di luna, certi cieli pieni di stelle li aveva visti solo laggiù, in quel buco di paese dove non sarebbe tornato nemmeno dipinto su di un muro. A Milano, non era la stessa luna ma un’altra un poco più dimessa.

Non aveva proprio voglia di andare da Aurelia, la mente e i sensi quella sera erano interamente occupati da Virna e non avrebbe voluto distrazioni. Era stato tentato di sottrarsi dicendo che non poteva, solo che non aveva ancora saldato il debito di gioco e quei soldi gli servivano proprio; per di più, quella donna gli allungava sempre mance molto generose. Tuttavia, lo metteva a disagio: da più di tre mesi richiedeva la sua presenza due o tre volte la settimana e, oltre alle mance, aveva incominciato quasi subito a fargli regali costosi: gli abiti di sartoria che gli chiedeva di indossare in alcune occasioni e che teneva nel suo armadio (una forma di intimità forzata sgradevole e disturbante), ma anche l’accendino DuPont in argento massiccio , il giubbotto in morbida nappa nera e il bracciale in oro a maglie con la piastra su cui, in elegante corsivo, era inciso il suo nome. Quello falso, ovviamente.

Non capiva cosa volesse davvero da lui, anzi no, lo sapeva benissimo e, semmai, aspettava un segnale chiaro e inequivocabile, temendo che si manifestasse.

Gli era capitato di intrattenersi con donne anche meno attraenti di Aurelia e neanche il fatto che avesse l’età di sua madre lo turbava. Lo infastidivano le sue domande troppo personali, la pretesa di frugare nella sua vita, di capire le ragioni, conoscere i desideri. Ragioni, desideri: le prime erano banali, i secondi vaghi; si trattava di cogliere le opportunità nel momento e nel contesto in cui si fossero presentate. In ogni caso, non era pagato per raccontare i fatti suoi.

E ora, Virna avrebbe potuto cambiare tutto, Virna lo stava già trascinando da un’altra parte.

Aurelia percepì qualcosa che la mise in allarme non appena Max entrò in casa, gentile e sorridente come d’abitudine. Presero l’aperitivo in terrazza cincischiando discorsi destinati a dissolversi nell’aria insieme alle spire fumose delle sigarette, il sole calante sopra i tetti e la luna sempre più tonda e luminosa dalla parte opposta del cielo.

Aurelia lo trovò più evasivo del solito, distolto da qualche suo pensiero che non doveva essere una preoccupazione, perché negli occhi chiari e freddi brillava un’insolita luce allegra. Non si era nemmeno informato sulla destinazione della serata, per la quale lei stessa non aveva un piano; aveva deciso di uscire alo scoperto affidandosi all’improvvisazione.

Era così giovane, bello e indifferente, ne conosceva bene la disinvolta amoralità; tuttavia, osservando il suo silenzio distante, Aurelia intuì che stava assistendo a una mutazione capace di scalfire il cinismo superficiale per rivelare un’essenza intima più onesta e genuina. Una simile evoluzione glielo avrebbe portato via; così, decise che voleva averlo, almeno una volta, prima di lasciarlo andare.

“”Ho organizzato una festa alla villa di Crema, è meglio se ci avviamo, Il servizio di catering ha già preparato tutto, gli ospiti arriveranno verso le dieci”.

Poco prima di Crema lasciarono la Paullese e imboccarono una strada che correva dritta in mezzo a una campagna ordinata, geometria monotona di appezzamenti coltivati a cereali; dopo un poco infilarono una breve via inghiaiata. Durante il tragitto, guidando con un po’ troppa fretta la piccola Mercedes decapottabile dentro l’ultima luce di una sera di giugno, Aurelia aveva parlato di vacanze estive, accennando a una crociera nel Mediterraneo sullo yacht di alcuni amici. Gli aveva chiesto quali fossero i suoi programmi, insinuando l’eventualità di una proposta non ancora formulata. D’improvviso, Max aveva afferrato la squallida tristezza di quella rappresentazione e della sua stessa esistenza fino a quell’istante. Allora era stato tentato dalla brutalità, usare le parole più volgari per tradurre i pensieri reali di Aurelia. Invece, le aveva raccontato di Virna e osservando il suo volto perdere l’abituale compostezza, distorto da una smorfia di contrarietà e di afflizione, si era allontanato dall’evidente sofferenza non per discrezione, bensì per disgusto.

Allo stesso tempo, la proiezione del futuro che avrebbe potuto condividere con Virna, fatto di sacrifici, di fatica e di aspirazioni modeste e banali gli appariva come la sola via di salvezza, un desiderio fulgido come il chiaro di luna che illuminava il muro di cinta della villa e del parco.

Aurelia procedeva lentamente lungo il viale d’accesso attraverso il parco e si fermò davanti al giardino fiorito dal quale si accedeva alla villa. La facciata in stile liberty, con decori in stucco e balconcini racchiusi da leggiadre balaustre in ferro battuto, ornate con motivi floreali, era illuminata dalla luna tonda e bianca che formava ombre lunghe sulla ghiaia candida, ma l’interno appariva buio e silenzioso.

Max comprese quale sarebbe stato il programma della serata, che non includeva nessun altro ospite, solo lui e Aurelia con la sua brama miserabile. Doveva quindi decidere se vendersi per un’ultima volta a un prezzo per cui ne valesse la pena.

Scesero dall’auto, la ghiaia fine scricchiolava appena sotto le suole delle scarpe. Ognuno era assorbito dalle proprie considerazioni definitive con una curiosa sensazione di rallentamento, muovendosi in un tempo talmente trattenuto da sembrare fermo.

Poi si verificò un’improvvisa accelerazione, uno di quei bruschi deragliamenti in cui gli elementi distinti di una storia collidono, stabilendo un prima e un dopo.

Di fronte alla corta scalinata che saliva al portoncino d’ingresso si trovava un pozzo, pregevole manufatto dall’imboccatura ampia e aperta, attorno un muro di protezione alto poco più di un metro, sormontato da un elegante arco che sorreggeva la carrucola con il secchio per l’acqua. Aurelia gli si pose di fronte, raggiungeva quasi la sua statura ma era  assai più larga e pesante, lo afferrò per le braccia attirandolo a sé. Max colse nel suo sguardo la cupidigia, la rabbia e l’umiliazione e ne fu atterrito e nauseato. Tentò di divincolarsi con una contorsione violenta, perse l’equilibrio e istintivamente si aggrappò alle braccia della donna, invece quella gli diede una spinta potente e lui ebbe appena il tempo di scorgere il lampo di fredda follia nei suoi occhi.

Cadde all’indietro, batté la nuca contro il lato opposto del parapetto in pietra, svenne all’istante e precipitò per un centinaio di metri, tanto era profondo il pozzo. La vena d’acqua era quasi prosciugata, sicché finì sopra un putrido strato melmoso con pochi centimetri d’acqua.

Aurelia corse a prendere una torcia che teneva in auto, si affacciò per guardare, lo scorse accasciato sul fondo, dopo un poco notò un lieve movimento. Aveva il fiato corto, le pulsavano le tempie e si stava lasciando sopraffare da un groviglio di sentimenti sconosciuti: furia, soddisfazione, un piacere amaro. S’immaginò la paura di Max, ricordò la mortificazione di un rifiuto istintivo e crudele, decise di punirlo. Dapprima pensò di lasciarlo lì qualche ora; si rese subito conto di essere nei guai: le rispettive versioni dei fatti che avrebbero fornito dopo i soccorsi sarebbero state discordanti, oppure lui avrebbe potuto decidere di assecondarla per poi ricattarla per tutta la vita. Levò lo sguardo verso il chiarore sfacciato del plenilunio e concluse che anche la luna aveva un lato oscuro, dopotutto. Era finita, finita, lo aveva perso per sempre senza averlo mai avuto, ma almeno non si sarebbe mai dovuta chiedere che fine avesse fatto.

Decise di andarsene e di tornare qualche giorno dopo a buttare della calce nel pozzo, in seguito avrebbe incaricato qualcuno di chiuderlo.

La notte era tiepida e chiara, Aurelia guidava con il tettuccio abbassato, andava veloce sulla Paullese verso Milano e a un tratto fu colpita dal pensiero che conosceva la strada di casa, però non sapeva se avrebbe mai più ritrovato la via per tornare alla sua vita di prima. Le venne in mente che quella ragazzetta, come si chiamava? Virna, ecco, la domenica avrebbe atteso invano che Max passasse a prenderla, addio gita al lago. Si figurò la sua faccia delusa, la festa rovinata, il rammarico per un amore incompiuto e constatò che, alla fine, in quella storia nessuno aveva avuto ciò che voleva.

Filava via  veloce, troppo veloce e scoppiò a ridere, una risata sguaiata e triste che non poteva fermare. Rideva della sua infatuazione indecente, di un insopportabile diniego e di una vendetta sublime. Rideva ancora, quando perse il controllo della Mercedes su una curva e si ritrovò accecata dai fari di un grosso camion che sopraggiungeva sul lato opposto della carreggiata, e la prese in pieno.

Quando Max rinvenne, ci mise qualche istante a ricordare gli avvenimenti per effetto dei quali si trovava in quel luogo maleodorante. Si tastò la nuca e si accorse che sanguinava, poi vide che aveva anche un taglio profondo su una coscia e da quella ferita il sangue sgorgava ancora più copioso. Cercò di tamponarla come poteva, gridò il nome di quella pazza imbestialita che lo aveva spinto apposta, facendolo precipitare. Attorno c’era solo silenzio, percepì appena qualche lieve fruscio proveniente dal parco.

Almeno non sono al buio, pensò alzando lo sguardo verso il chiarore del plenilunio.

Chissà se quel bambino che non sono riusciti a salvare ha potuto vedere l’ultimo chiaro di luna o se tutti quei riflettori accesi glielo hanno impedito. Ma io non farò quella fine, domani passerà il giardiniere e qualcuno mi tirerà fuori.

Si sovvenne che l’indomani era sabato, difficile che passasse il giardiniere. In realtà, benché Max non sapesse quanto fosse pericolosa una ferita all’arteria femorale, di cui conosceva a malapena l’esistenza, intuì che non sarebbe arrivato a una nuova alba.

Scivolava in un torpore quasi confortevole che mescolava i ricordi ai pensieri sul presente, sempre più somiglianti a dei vaneggiamenti. Si chiese se la cascina laggiù al paese fosse ancora in piedi e rammentò il vecchio pozzo in un angolo dell’aia, non bello come questo ma altrettanto profondo, con il secchio, il mestolo di alluminio e l’acqua freschissima, dal sapore verde e dolce.

Una notte, pochi giorni dopo che suo padre se ne ara andato, era stato risvegliato da alcuni rumori inconsueti. Si era alzato a sbirciare dalle persiane chiuse; la luna piena rischiarava l’aia con una luce fredda e bianca, disegnando contorni netti e ombre allungate. Aveva visto sua madre andare avanti e indietro dal casotto degli attrezzi al pozzo, posto a un’estremità dell’aia, ombreggiato da una parte della tettoia del pollaio adiacente. Reggeva un secchio ricolmo di un liquido che rovesciava piano dentro l’imboccatura; infine l’aveva osservata trascinare delle pesanti assi di legno e con quelle chiuderla per bene.

“Ma’, perché hai chiuso il pozzo?”, aveva domandato la mattina dopo.

Perché l’acqua è diventata marcia”

“E come mai l’acqua è diventata marcia?” aveva replicato, ricordando che da un paio di giorni, in effetti, sulla corte gravava un fetore insolito.

“E che ne so. Ci sarà qualche bestiaccia morta in fondo al buco. Comunque, l’acqua non si può più bere perché ho buttato la calce e al pozzo nemmeno ti devi avvicinare, hai capito bene?”

Poi era venuto il sindaco, poi erano partiti per Milano. Era l’estate del ’65.

Alla Stazione Centrale li aspettava il prete bello, un mezzo austriaco proveniente dal sud Tirolo. Laggiù al paese lo avevano subito soprannominato il prete bello per le fattezze da mitteleuropeo ben riuscito, alto e biondo, volto armoniosamente squadrato, sguardo azzurro e fermo.  Non c’erano mai state tante ragazze in chiesa la domenica come nel periodo in cui costui era parroco  e presto erano fioriti i pettegolezzi, tanto che, dopo appena due anni, il prete bello era stato improvvisamente trasferito a Milano. Comunque, dopo che suo padre si dileguò e sua madre decise di salire a Milano e andare a servizio, in qualche modo era riuscita a rintracciarlo e a farsi aiutare per l’assegnazione di un alloggio del Comune e per trovare un lavoro.

Max aveva un ricordo assai vago dell’uomo, trasferito dalla Curia nella periferia milanese quando lui frequentava la prima elementare, e che quel giorno lo gratificò di una lunga occhiata incuriosita. Tuttavia, aveva udito le illazioni sul prete bello, divenute leggenda e tramandate di madre in figlia negli anni successivi al suo repentino abbandono di quella comunità ristretta.

Non lo aveva più rivisto né ci aveva pensato; intanto, non gli era sfuggito che sua madre aveva dismesso l’espressione da animale braccato alla quale era abituato, sostituendola con un piglio determinato, quasi di sfida. Con il passare degli anni, era affiorata la durezza e si era stratificata una scorza impenetrabile.

Allora, Max incominciò a ridere, la testa sempre più leggera, le membra sempre più spossate. Aveva colto il risvolto beffardo spesso presente nelle vicende umane, persino in quelle più tragiche: doveva fare la medesima fine di suo padre per comprendere dov’era finito quello sciagurato, e nell’istante immediatamente successivo a quell’epifania si erano disvelate altre verità sconcertanti, che giacevano da tempo appena sotto il suo naso.

Si sentiva così stanco. Se si fosse addormentato, non avrebbe dovuto assistere alla propria fine

 Avvertì il bisogno di un commiato, ma non sapeva da chi congedarsi. Non aveva amato suo padre, uomo temuto e disprezzato, né sua madre, per la quale provava solamente una compassione infastidita. Non aveva amici particolarmente cari, non si era mai innamorato, non ne aveva avuto il tempo e ora era troppo tardi per qualsiasi rimpianto o proposito.

Se ne sarebbe andato senza lasciare tracce, epilogo coerente di una vita breve in cui troppe cose erano andate storte.

L’ultima cosa che vide fu il chiaro di luna che sbiadiva, ricacciato in fondo alla notte dall’aurora incombente; l’ultimo pensiero fu per Virna, per un  appuntamento mancato, per tutto ciò che avrebbe potuto essere e non era stato.

L’Elvira si era svegliata nel bel mezzo della notte con una gran sete per colpa delle acciughe, comprate da Delfo al mercato rionale di via Lorenteggio. Si alzò per andare a bere e scoprì di avere scordato di abbassare la tapparella in cucina. Dai vetri entrava una gran luce, si avvicinò: i fiori bianchi della magnolia, al centro della piccola corte, rilucevano sotto i raggi argentei di una luna enorme e tonda. L’Elvira si commosse ripensando ad altri   di luna, quando lei e Delfo erano giovani e innamorati, pronti ad affrontare e vincere qualunque sfida.

 Rivide quarant’anni di matrimonio e si azzardò a domandarsi se fosse quella, la vita che sognava da ragazza e no, probabilmente non lo era. Ma c’erano stati anche dei bei momenti e, in ogni caso, era tutto quello che aveva.

Nella tarda mattinata di lunedì  l’Elvira, ben vestita e con le scarpe, per via del decoro, smistava la posta del giorno nelle apposite cassette, montate nell’atrio dai pavimenti in  marmo odorosi di cera. Era di vedetta dalle sette ed era sicura di non aver visto scendere Aurelia Ornaghi (quella zoccola dell’Ornaghi) per il consueto e inderogabile rito delle nove, ovvero la colazione al vicino Bar Magenta. Circa un’ora dopo due ometti ossequiosi vestiti di nero, che puzzavano di pompe funebri lontano un miglio, l’avevano avvisata che avrebbero allestito sul portone i paramenti sacri per le esequie del giorno dopo.

“Ussignur, e chi è che morto, che neanche me ne sono accorta?” sobbalzò l’Elvira, sentendosi in colpa per la palese manchevolezza, perché aveva clamorosamente disatteso la sua funzione di attenta osservatrice. C’erano una ventina di alloggi e ne conosceva tutti gli occupanti; non che facesse l’appello tutte le mattine come a scuola ma insomma, una cosa così doveva pur avere avuto qualche segnale. Intanto, uno dei due chiedeva conferma che fosse lì che risiedeva la povera  signora Aurelia Ornaghi. L’Elvira fece sì con la testa, perché al momento si trovava a corto di parole.

Seguì una notevole confusione; arrivò la madre di Aurelia (il padre era deceduto da tempo, portarono la bara (chiusa, perché l’impatto con il camion era stato talmente violento da rendere impossibile il ricomponimento della salma, molte persone vennero in visita.

Il giorno successivo sul marciapiede davanti al portone, nell’atrio e nella corte stazionava una piccola folla di rappresentanti della borghesia lombarda, venuti a rendere omaggio a una donna alla quale, quando era viva, non avevano accordato la loro stima e nemmeno della simpatia, con qualche rara eccezione.

“NOTA IMPRENDITRICE DEL SETTORE ALIMENTARE LOMBARDO PERDE LA VITA IN UN TRAGICO INCIDENTE SULLA PAULLESE”, così titolava il quotidiano Il Giorno.

Seguiva un sintetico articolo che parlava dell’azienda, della famiglia, delle sorti future dell’attività. Si descriveva anche la dinamica dell’incidente avvenuto venerdì notte, a causa dell’elevata velocità e della conseguente perdita di controllo della vettura da parte dell’Ornaghi.

L’autista del camion aveva riportato ferite lievi ed era sotto choc. Non si accennava alla presenza di altri passeggeri defunti o sopravvissuti, e l’Elvira immaginò che il giovanotto biondo se ne fosse già andato per i fatti suoi perché la serata aveva preso una piega storta, pensa che fortuna. Quell’inquilina antipatica e scostante non le sarebbe mancata, ma le spiaceva non rivedere più il sorriso del bel ragazzo tanto elegante ed educato. Anche dotato di un certo pelo sullo stomaco, l’Elvira era imparziale, ma forse doveva solo trovare la ragazza giusta.

Anche Vittorio, il collega di Max socio dell’agenzia che forniva “servizi di pubbliche relazioni” aveva letto l’articolo sul giornale e, dopo tre giorni di assenza non giustificata dal lavoro del ragazzo, si era posto qualche domanda. Naturalmente, si era ben guardato dal riferire ad alcuno dell’appuntamento che costui aveva con la defunta la stessa sera dell’incidente. Dopotutto, con chi quella donna avesse ammirato l’ultimo chiaro di luna della sua vita erano solo affari suoi, tanto più che, come da regolamento, il servizio era stato saldato in anticipo e in contanti. Restava la curiosità di appurare dove si trovasse Max: dato che non era in auto con l’Ornaghi, per quel che se ne sapeva: magari era riuscito a farsi dare una somma di denaro bastevole a scomparire per ricominciare da un’altra parte. Nel caso, buon per lui.

Virna si era dapprima infuriata, quando Max la domenica mattina non si era presentato all’appuntamento. Era rimasta sul marciapiede davanti al Bar Quinto per un’ora sentendosi una povera scema, con i bermuda bianchi, la maglietta scollata a righe bianche e azzurre e i sandaletti piatti. Le era toccato inventare una storia a sua madre, quando infine era rincasata; aveva atteso invano tutto il giorno una telefonata.

Non poteva chiamarlo perché a casa era sprovvisto di telefono e neanche sapeva a quale numero di via Carbonia si trovasse la sua abitazione.

Il lunedì entrò in fabbrica decisa ad affrontarlo a muso duro. Non lo vide in mensa né all’uscita e così fu anche nei giorni successivi. Venne a sapere che era assente ingiustificato dal lavoro, correva il rischio di essere licenziato. Allora la rabbia defluì nello sbigottimento. Giravano voci su certe frequentazioni pericolose e su debiti di gioco; Virna considerò che forse era meglio così, aveva corso il rischio di immischiarsi con un poco di buono.  Tuttavia, serbò per molti anni il rammarico di non aver potuto scegliere da che parte stare, e fino a dove rischiare.

Dopo tre giorni di assenza del figlio, la madre di Max – anzi, di Michele – aveva preso in considerazione l’idea di rivolgersi ai carabinieri, ma non lo aveva fatto. Aveva anche pensato di dirlo al prete bello, poi aveva preferito non farlo. In fondo, tutti gli uomini della sua vita, in un modo o nell’altro, se ne erano andati prima di quanto potesse supporre, a cominciare da suo padre: partito per combattere una guerra in cui si trovò, suo malgrado, schierato dalla parte sbagliata della storia e morto senza poter tornare a chiedere scusa.

Suo marito era una faccenda differente che lei sola conosceva nei dettagli, e aveva deciso di scordarli. Era sparito anzitempo dal suo orizzonte pure il padre di quel figlio, concepito all’impiedi in una canonica buia durante una notte di plenilunio. E adesso se ne era andato quel figlio stesso: era sempre stato strano e diverso, Assunta sapeva bene quanto detestasse la vita che conducevano, la sola che aveva potuto offrirgli. Chissà, forse aveva trovato quello che cercava da un’altra parte, e lei avrebbe continuato a sopravvivere con il niente che le era rimasto.

“Worried moon, shining bright,

Can I sleep here tonight right beside you?

I got a long way to go

I’ll be off in the morning…”

(“Worried moon”, Chris Cornell)

Luna preoccupata che risplendi luminosa,

posso dormire qui stanotte, proprio accanto a te?

Ho un lungo cammino da percorrere,

Me ne andrò domattina …”