LE LUCCIOLE E LE LANTERNE
16 agosto 1999, Siena, Palio dell’Assunta. Dieci cavalli corrono con il diavolo ai garretti sulla pista in mezzo alla città, fondo stradale in pendenza, curve a gomito. Per loro, la vera vittoria è rimanere in piedi fino alla fine della gara. Non provo mai molta compassione per i fantini che ruzzolano a terira, hanno fatto una scelta consapevole, ma quando vedo un cavallo scivolare via e crollare su un fianco mi si stringe lo stomaco. Eppure, guardando quelle figure esili saldamente piazzate sulla schiena dell’animale, composte e persino eleganti, mi persuado che nessun uomo sarebbe in grado di sfidare un cavallo e dominarlo in quel modo impiegando la coercizione. Sono un unico corpo potente, non è solo sincronia di movimento, bensì un dialogo dei sensi, un’armonia cercata e trovata; dunque, un atto d’amore.
È la contrada della Chiocciola a chiudere il secolo con la vittoria, Massimo Coghe detto Massimino su Votta Votta.
Chiudere un secolo, cominciarne un altro che apre un nuovo millennio. Non capisco tutte queste aspettative (né quelle entusiastiche, né quelle funeste), soprattutto all’inizio apparirà come un tempo già usato, un poco logoro, entrerà portandosi appresso un odore molle e stantio che affiorerà non appena si sarà volatilizzato quello acre e sulfureo dei mortaretti e dei fuochi d’artificio sparati a Capodanno.
Manca ancora un po’ di tempo a quel passaggio, la Contrada della Chiocciola si gode la vittoria che è una rivincita dopo diciassette anni, con un fantino e un cavallo anch’essi risorti dopo vicende avverse, storie egualmente sfortunate che accomunano un uomo e un animale appaiati dal caso. O dalla sorte, se si preferisce pensare a una trama già scritta, però poi bisognerebbe anche decidere da chi o da cosa. Comunque, oggi vivono un giorno di gloria portati in trionfo da una folla festante, il cavallo, ancora eccitato dalla corsa, ha il mantello rilucente di sudore.
Dopo tanto tempo, conservo il ricordo nitido ed esatto dell’odore zuccheroso e ferrigno di quel sudore, come pure quello del fiato profumato di fieno e fiori di campo, il soffio delicato di un cavallo quando avvicina il muso per fiutarti e riconoscerti; è quasi una carezza e ne provo un’acuta nostalgia.
E allora, perché non sono più capace di ricordare il tuo odore?
Una volta amavo l’estate, ma adesso che troppe cose sono finite e altre hanno perduto qualsiasi possibilità di incominciare, mi dà fastidio e basta. Ormai è solamente una figura retorica che alterna l’iperbole all’ ossimoro, una cocciuta illusione, la falsa allegria della bolla di sapone che risplende per pochi istanti ed esplode in mille goccioline effimere
Era la primavera delle domeniche a targhe alterne, dopo quelle a piedi dell’inverno del ‘73. Avevo ventotto anni e non possedevo ancora un’auto, per cui l’andamento dei miei giorni festivi non aveva subito variazioni sostanziali. Lavoravo da alcuni anni in un piccolo ambulatorio veterinario in viale Monza, dove avevo fatto pratica ancora prima di laurearmi e ciò che guadagnavo mi bastava appena per pagare l’affitto dell’abbaino in via Valtorta, da dove potevo raggiungere lo studio a piedi in pochi minuti. I miei, invece, risiedevano nella caserma di via Lamarmora perché papà era un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri e potevo arrivarci agevolmente con i mezzi pubblici. Del resto, dopo che mio fratello se n’era andato in Germania, opponendosi al progetto di avviamento alla carriera militare sul tracciato dele orme pesanti di nostro padre, mi ero trasferita a Turro per stabilire tra me e loro una separazione e una distanza che fossero anche fisiche.
Rammento che era una di quelle serate primaverili malmostose, umida e ventosa, con un’opaca luce itterica che annunciava una notte senza stelle. Mancava poco alla chiusura, l’anziano dottor Berti, che alla fine dell’anno si sarebbe ritirato cedendomi l’attività, se ne era andato già da un pezzo inventandosi qualche misterioso impegno, come se avesse avuto bisogno di giustificarsi. La porta d’ingresso si spalancò di colpo e tu entrasti reggendo un grosso gatto grigio che mi porgesti a braccia tese:
“…è stato investito da un’auto pochi minuti fa, quel disgraziato non ha fatto niente per evitarlo e nemmeno si è fermato. Per favore, lo aiuti”, dicesti tutto d’un fiato. Io fluttuavo a mezz’aria nel fermo immagine che avrei serbato nella memoria per tutti gli anni a venire: un uomo alto e un poco allampanato, abbigliato in maniera apparentemente trasandata e certo al di fuori – al di sopra – di qualsiasi moda, il volto dai tratti aristocratici simili a quelli di certi ritratti del primo Novecento, i capelli ondulati e scuri come gli occhi larghi e profondi di un nero assoluto, l’iride che quasi si confondeva con la pupilla. Mi sembrasti così affranto che immaginai che il gatto fosse tuo; mi riferisti invece che avevi assistito per caso all’incidente mentre rincasavi. Purtroppo, per lo sfortunato animale non c’era nulla che potessi fare, se non abbreviare le sue sofferenze e mi ritrovai a spiegartelo con una frase di circostanza che, sebbene un poco mesta, avrebbe potuto essere scritta da La Rochefoucauld e finire sulle cartine dei Baci Perugina.
Rimanesti lì fino alla fine, assumendoti la responsabilità di accompagnare un gatto sconosciuto verso l’ultimo respiro. Eri talmente mortificato che ti suggerii che forse avresti potuto aiutarne un altro, adottandolo. In ambulatorio avevamo sempre alcuni trovatelli ai quali cercava casa; da un paio di settimane ospitavamo un cucciolo nero e striminzito che nessuno prendeva in considerazione, forse per via dei pregiudizi antichi che si portano addosso i gatti neri.
Vi eravate soppesati per un poco a vicenda, lui ti fissava nel modo diretto, eppure indecifrabile, che hanno sempre i gatti.
“Non ho mai vissuto con un felino, ma posso provarci. Lo chiamerò Fidia, maschio o femmina che sia”.
Spiegasti che insegnavi Storia dell’Arte alla Manzoni, il Liceo Linguistico milanese situato nello sfarzoso e cadente Palazzo Dugnani, in via Manin; Fidia era lo scultore ateniese dell’età classica che più amavi. Per fortuna, il cucciolo era un maschio.
Prendesti l’abitudine di passare almeno una volta alla settimana con il pretesto di chiarire dei dubbi o chiedere consigli; io assecondavo l’evidente quanto ingenua finzione e passavamo rapidamente ad altri argomenti, sfiorati e piantati a mezzo; ci giravamo attorno curiosi e affamati l’uno dell’altra e già disposti all’elaborazione di un noi, fusione nucleare perfetta e stabile.
Eravamo nel mezzo dell’estate quando lasciai il modesto abbaino per trasferirmi da te, nell’appartamento in via Bertelli con le alte finestre e i pavimenti a mattonelle quadrate e rosse, di quel cotto poroso tipico delle vecchie case meneghine. Stavi da dieci anni a un quarto d’ora a piedi da casa mia e dall’ambulatorio, viale Monza come un confine a separare due raffigurazioni di Milano differenti, la tua sulle rive quiete e bucoliche del Naviglio Martesana, la mia su di un brutto e largo viale, vecchi palazzotti e condomini anonimi, le stazioni della metropolitana. Eravamo così vicini e, ciononostante, le nostre strade non si erano mai incrociate.
Durante quell’estate ti trascinavo alla Punta dell’Est solo per finire infrattati in qualche gerbido buio attorno all’Idroscalo a rimirare lucciole che erano anche lanterne, perché in quei giorni straordinari ogni abbaglio era una scheggia di verità.
C’era Un disco per l’estate, a me piacevano le canzoni dei Nomadi e dell’Equipe 84 ma alla fine vinse il solito cantante noiosamente melodico; ci raccontavamo dentro l’aria ferma delle notti estive milanesi e il mosaico delle nostre vite si componeva senza fretta, una tessera dopo l’altra.
Tua madre non ti aveva mai detto chi fosse tuo padre. Era fuggita dalla città natale, Guernica, nel ’36, poco dopo l’inizio della guerra civile, raggiungendo alcuni amici a Milano. Non che in Italia si stesse così bene, ma era più facile rimanersene nell’ombra.
Nell’aprile dell’anno successivo Guernica fu distrutta da un bombardamento e diede il nome all’opera con cui Picasso volle rappresentare l’orrore di quella guerra, come di ogni altro conflitto. Leonora aveva solo diciannove anni ed era infermiera, trovò lavoro all’Ospedale Maggiore. Tu nascesti nell’estate del ’38 e trascorresti gli anni dell’infanzia e della giovinezza in una casa colonica a Crescenzago, accudito da un numero indefinito di zie e zii che non erano neppure lontanamente parenti. Parlavano molto di politica ed erano attivisti che cercavano ostinatamente di organizzare l’opposizione al regime franchista senza farsi ammazzare. Il tuo genitore rimase sconosciuto ma, come ti rivelò tua madre, contribuì al tuo mantenimento in maniera generosa fino alla laurea all’accademia di Brera. . Al confronto, la mia storia appariva talmente banale; in realtà, era la tua a essere decisamente fuori dall’ordinario.
Leonora aveva appena vent’anni più di te e possedeva la medesima bellezza raffinata, tradita da una passionalità furiosa che traspariva dalla gestualità un poco concitata e dal fraseggio, breve e imperioso, che scivolava dentro una musicalità dolcemente cantilenante quando ti parlava in spagnolo. Lo faceva di frequente; voleva che tu non scordassi mai la lingua della sua terra e dei tuoi unici avi, dato che quelli paterni non facevano parte della tua vita.
Nell’estate in cui le lucciole potevano essere lanterne non ci scambiammo promesse. Sapevamo che sarebbero state mere dichiarazioni di intenti e, per quanto rilasciate in perfetta buona fede, prive di garanzie intrinseche di essere mantenute. Ci mettemmo in viaggio puntando verso un orizzonte più ampio, e mantenemmo la rotta.
Per le ferie d’agosto andavamo sempre al mare; ovunque ci trovassimo, alla sera ci piaceva frequentare i cinema all’aperto. Non eravamo particolarmente interessati alla programmazione: preferivamo certi film dell’orrore truculenti (dinanzi alle scene davvero brutte alzavamo gli sguardi verso il cielo stellato, per allontanarci da certe efferatezze), ma qualunque genere andava bene. Ciò che contava era lo spettacolo di una trama appesa nel buio della notte, la colonna sonora mescolata alla cacofonia di una strada. La storia usciva dalllo schermo attraversando un varco temporaneo tra finzione e realtà, scomodi sedili di legno o di plastica, odore di pizza e di bomboloni unti e zuccherosi.
Quindici anni non sono un tempo così lungo, si consumano in pochi respiri.
Eravamo rimasti nel vecchio alloggio dal quale guardavamo scorrere le acque scure del Martesana, io mi prendevo cura dei miei silenziosi pazienti nell’ambulatorio in viale Monza, Fidia era diventato un maestoso gattone che invecchiava con la studiata noncuranza di un divo, le ragazzine ti telefonavano a casa con le scuse più disparate (le capivo, non è frequente imbattersi in un docente tanto fascinoso); tu respingevi i loro assalti con educata fermezza per evitare qualsiasi fraintendimento.
Tutto ebbe inizio una domenica sera, mentre cenavamo da tua madre. La maggior parte dei suoi coinquilini era tornata in spagna nel ’75, subito dopo la fine della dittatura di Franco, con lei erano rimaste due donne che continuavi a considerare zie, ex infermiere anche loro. Stavi dicendo qualcosa in spagnolo, lingua che ormai padroneggiavo anch’io, ti fermasti a metà di una parola. Ci guardavi, smarrito, aprivi la bocca senza emettere alcun suono. Dopo alcuni istanti ti passò, cercasti di minimizzare ma non era la prima volta che ti succedeva e negli ultimi tempi lamentavi forti emicranie. Tua madre si allarmò al punto da costringerti a sottoporti a degli esami; scoprimmo subito che il tuo tempo si sarebbe concluso nel giro di pochi mesi: Rifiutasti le terapie e rispettammo la tua determinazione, comprendendone le ragioni; io e Leonora rimanemmo saldamente al tuo fianco rimandando la disperazione a un momento successivo, quando avremmo potuto permettercela. Arrivò un giorno in cui lessi nei tuoi occhi la medesima implorazione che vedevo nello sguardo di certi animali sofferenti, “basta”.
Ormai non parlavi più e i medici non capivano come potessi essere ancora in vita.
Mi tornò alla mente la frase un poco melensa che ti propinai la sera del nostro primo incontro, dinanzi a quel povero gatto irrimediabilmente rotto.
In seguito, avevo espresso un pensiero che tu avevi giudicato piuttosto estremo, e cioè che ognuno, purché non sia affetto da patologie psichiatriche conclamate, dovrebbe avere il diritto di terminare la propria esistenza quando gli pare, senza doversi sparare in salotto o tagliarsi le vene in una vasca da bagno, senza onta né dolore. Chiunque, in qualunque condizione fisica, figuriamoci se ammalato, incurabile e sofferente.
“Scusi, la sala suicidi?”
“Seconda porta a destra, il medico la raggiungerà tra poco, intanto si metta comodo”.
Così, semplicemente, rispettoso e dignitoso. Di certo, nessuno dovrebbe essere costretto a giacere nel puzzo del proprio corpo in doloroso disfacimento, in balia di mani estranee o amate, ma sempre altrui e di un panico rabbioso, nell’attesa di una fine che tarda. Disgraziatamente, in questo Paese sarebbe più facile ripristinare la pena di morte che consentire l’eutanasia, ne sono sicura. Maggioranza di benpensanti ipocriti, legislatori pavidi aggrappati al loro consenso.
Ci guardammo a lungo. Era una bella notte di giugno, quasi estate, la luna piena spalmava la sua luce fredda e sfacciata sul buio dell’acqua del Naviglio. Qualche leggero fruscio tra le fronde degli alberi, un cane abbaiò in lontananza mentre un allocco in cerca di compagnia ripeteva il suo verso modulato su un’unica nota, sempre la stessa.
Trascinai il tuo letto attrezzato sul terrazzo e sollevai lo schienale affinché tu potessi scorgere il Naviglio.
Sono una veterinaria, sapevo cosa fare senza mettermi nei guai. Date le tue condizioni, nessuno avrebbe indagato sulle cause del decesso e, in ogni caso, avevi disposto la cremazione della salma. Mi distesi accanto a te e ti tenni abbracciato fino alla fine.
Un attimo prima, Fidia saltò sulla strada dal terrazzo; non ritornò più.
Dopo, vagavo per le stanze vuote e silenziose senza riconoscere la mia immagine riflessa nello specchio. Eppure, ero stata coerente con le mie convinzioni, mettendo in pratica il principio da sempre sostenuto. Allora, dov’ero?
Leonora tentò di prendersi cura di noi con ammirevole dedizione, sul finire dell’estate mi annunciò che sarebbe tornata a Guernica:
“Qui non posso affrontarlo. Forse dovresti andartene anche tu. Se vuoi, potrai sempre raggiungermi, ma io credo che questo dispiacere ci separerà per sempre, perché insieme non facciamo altro che custodirlo e renderlo pesante come un macigno”.
Aveva ragione. Lasciai Milano, l’ambulatorio e quel che restava della mia famiglia e me ne andai tra le montagne, quelle che tu, creatura di terra che agognava l’acqua e il vento che solleva le onde, non amavi affatto.
Leonora andò a cercarsi dove la sua storia aveva avuto inizio, io mi accinsi a ritrovarmi in un luogo dove non ero mai stata, scelto a caso tra le località alpine meno popolari.
Tutto mi era estraneo, c’era troppo silenzio, era primavera ma faceva ancora freddo.
Il sole scompariva presto dietro le alte cime dentellate, aguzze e leggiadre, gotiche come le guglie del Duomo di Milano, dura pietra che la luce obliqua del tramonto tingeva di rosa pallido.
Mi sistemai in un alloggio appena fuori dal paese, al piano superiore di una casetta di legno e pietra ai margini della foresta. La proprietaria era un’energica vedova sulla sessantina che occupava il pianterreno; possedeva anche l’unico emporio del paese e quando seppe che cercavo un lavoro qualsiasi mi disse che aveva bisogno di una commessa. Parlava (poco) più volentieri il tedesco che l’italiano ma per qualche strana ragione sembrava volersi occupare di me, sebbene con ruvida discrezione. Non ci scambiammo mai confidenze ma la permanenza di molte ore nello spazio relativamente ristretto del piccolo supermercato, per sei giorni alla settimana, produsse presto una sorta di familiarità superficiale e tuttavia, o forse proprio per questo, gradevole. Gerda era una cuoca eccellente e spesso la sera bussava alla mia porta allungandomi un piatto fumante, però non m’invitò mai a cena o a pranzo a casa sua.
All’arrivo dell’estate seguii le indicazioni di Gerda e andai per sentieri scegliendo quelli più solitari. Boschi freschi e bui, fragranti di resina, bacche e foglie umide, la presenza incombente e rassicurante delle cime dentate, una divinità ancestrale capace di proteggere e annientare.
Ho inveito contro quelle pietre e contro gli dei nei quali non credo, ho anche cercato di abbandonarti in qualche anfratto introvabile ma sono sempre tornata a riprenderti.
Non dovevi chiedermelo, non avresti dovuto. Era giusto farlo? Sì, lo era. E allora? Comunque, è stata una tua scelta, la responsabilità è tua. No, è mia perché l’ho fatto io, tu non potevi. Tutte cazzate, non è quello che non so accettare, ma la tua assenza irrimediabile.
Salivo a testa bassa, il fiato corto, mettendo un piede davanti all’altro con ottusa ostinazione. Un giorno ho guardato il paesaggio maestoso che avevo attorno, scenario immobile indifferente. Non avevo raggiunto la cima ma mi sono fermata, il respiro tagliato da un pianto asciutto, un singulto secco perché le lacrime, non trovando una via d’uscita, si ributtavano all’interno invadendo e corrodendo qualsiasi zona di salvaguardia. Non era uno sfogo liberatorio, ma piuttosto il segno che la compartimentazione non funzionava più: l’incendio si stava propagando in tutto l’edificio. Allora ho accolto tutto il dolore, l’ho tenuto tra le mani e l’ho guardato dritto in faccia, ho lasciato che mi attraversasse senza più oppormi. Con il tempo, è diventato una compagnia accettabile, si è stemperato nella nostalgia di ciò che ho perduto e nella consolazione della memoria di quello che è stato.
Quando Gerda aveva saputo della mia precedente professione non aveva fatto domande, sebbene il suo sconcerto fosse piuttosto evidente. Lavoravo al negozio da pochi mesi e un giorno mi disse:
“Giù in valle il veterinario se ne va in pensione. Dovresti andare a parlargli, gli dispiace non trovare un sostituto”.
Ci andai e poche settimane dopo indossavo di nuovo un camice, anche se il più delle volte ero io ad andare dai pazienti e non viceversa. Si trattava di cani e gatti ma anche di capre e pecore, asini e vecchi cavalli. Dopo un poco, presi a collaborare con le Guardie Forestali e mi capita tuttora di soccorrere cervidi, scoiattoli e marmotte, volpi e persino qualche lupo.
Rimasi nell’alloggio di Gerda, la quale trovò presto un’altra aiutante e non smise mai di farmi assaggiare le sue gustose pietanze. Naturalmente, ancora oggi compro tutto ciò che mi occorre nel suo negozio.
Non mi è mai venuta la tentazione di tornare a Milano: in quelle strade ho vissuto un tempo felice che appartiene al passato, tra queste montagne pallide ho trovato dapprima rifugio, poi la pace. Ho diversi amici, le mie giornate mi piacciono, le notti a volte sono un poco vuote. Mantengo i contatti con Leonora, mi ha raccontato che sta bene, vive con un compagno che è stato un amico di gioventù. I miei vengono ogni tanto a trovarmi ma se ne vanno presto, non sopportano il silenzio interrotto dai misteriosi fruscii notturni del bosco che io, invece, trovo rassicuranti, segnali di presenze arcane e amiche.
Non mi sono mossa da qui per un anno intero, ero una convalescente timorosa di non essere guarita a sufficienza per poter lasciare la stanza dove ha curato la malattia.
Era di nuovo estate, ripresi la via del mare.
Mi trovavo su un’isola di spiagge lunghe dalla sabbia grossolana e scura, dove mi trattenevo fino a quando il giorno non si avviava verso l’oscurità con la gioia lieve di una ragazza che va a ballare in una balera sul mare, vestito leggero che scopre le gambe nude, sangue caldo e voglia di innocenti trasgressioni.
Dentro uno di quei tramonti c’era un ragazzo tanto più giovane dei miei quarantacinque anni, una lucciola meravigliosa che non si sarebbe mai rivelata lanterna, il perfetto e momentaneo abbaglio dell’ultima notte su un’isola lontana.
Sono tornata al mare ogni anno, mai nel medesimo posto; ogni volta un incontro fugace, immagini sbiadite come vecchie cartoline, souvenir da Vattelapesca.
A ripensarci adesso, dopo otto estati, questa piccola collezione richiama alla mente le farfalle conficcate con uno spillo su un pannello di sughero, barbarie che mi ha sempre fatto inorridire, perciò non voglio sapere come sono arrivata a questo. Osservo la mia modesta collezione di lepidotteri variopinti, ognuno diverso dall’altro, senza rimpianti né rammarico: mi autoassolvo in fretta, il loro volo era comunque destinato alla brevità.
Ti ricordi quello studente che fece pratica nel mio ambulatorio per qualche mese? Era invaghito di me in una maniera spudorata e commovente e tu mi confidasti di essere intrigato da certe fantasie. Però, non le avresti mai tradotte in pratica perché temevi l’impatto che avrebbero potuto avere sui nostri sentimenti. Provavo la stessa sensazione quando mi accorgevo dei corteggiamenti di qualche tua alunna, e ci lasciammo spesso prendere da tali fantasticherie. Una fantasia eccitante, non doveva essere niente di più, ma adesso non rischiamo più nulla.
Ho una predilezione per le isole, lembi di terra circondati dal mare e da esso racchiusi, abbracciati, separati, archetipi ineccepibili di ogni altrove.
È di nuovo inesorabilmente estate e sono approdata su un’altra isola. Sbarcata dal traghetto con la mia auto ho seguito le indicazioni per il residence dove ho riservato un appartamento. Preferisco rifuggire dalla promiscuità forzata degli alberghi, ormai sono talmente abituata a una fondamentale solitudine da esserne diventata gelosa. Per lo stesso motivo scelgo località appartate, ma quella nella quale sono giunta mi sembra proprio desolata: c’è un lungo nastro sinuoso di asfalto sbiadito dal sole che costeggia il mare, lecci e pini marittimi con la chioma piegata nella direzione prevalente del vento si succedono a distanza irregolare.
Sull’altro lato quasi nulla, un paio di case dal tetto piatto, bianche nella luce abbacinante del mezzogiorno, alcune strutture ricettive apparentemente in disuso o in una fase indefinita di ristrutturazione. Uno dopo l’altro, diligenti cartelli avvicendano paesi e frazioni.
Residence la Rosa del deserto, segnala una grande insegna, sono arrivata. Di rose non ne vedo neanche una ma di sicuro c’è un deserto dove forse apparirà un tizio sopra un cavallo senza nome, accompagnato dalle note di una vecchia canzone degli America.
Dietro una staccionata bianca con la vernice scrostata in più punti, sopra una specie di ampia gobba sono allineate una decina di casette uguali con i muri imbiancati a calce, divise da camminamenti in pietra ornati da mostruose piante grasse con le foglie carnose armate di aculei. Il cancelletto d’ingresso penzola tristemente da un unico cardine perché l’altro è rotto, Oscilla pigramente nel vento con un cigolio bisbigliante. Una raffica più energica delle altre lo manda a sbattere contro il pilastro con un rumore secco. Guardo di nuovo il cartello: l’appellativo La Rosa del Deserto suona decisamente derisorio.
Nel complesso, il sito ha un’aria spettrale che lo rende sinistramente affascinante.
Arriva una donna grassa sopra un motorino scassato, mi accompagna all’appartamento, mi spiega un paio di cose consegnandomi le chiavi e si congeda augurandomi un felice soggiorno: sembra che stia leggendo un dépliant pubblicitario, uno di quelli che ogni tanto arrivano per posta.
L’ingresso si apre su una cucina che funge anche da salotto, c’è un divano ma non un televisore. Sulla destra si trova una scala ripida, la rampa che scende conduce alla camera da letto, affacciata su un giardino rinselvatichito di ginestre, mirto e corbezzoli a contendersi uno spazio ristretto. L’altra rampa sale verso il tetto a terrazza da dove si gode una vista superba della costa, al di là della strada. Dietro un muretto di pietre candide, parzialmente diroccato, si stende un arenile stretto interrotto da una sequenza di alti scogli frastagliati che racchiudono minuscole spiagge, alcove invitanti di sabbia quasi bianca.
Il vento soffia senza sosta , produce schiocchi e fischi, diffonde aromi e fetori misteriosi, straccia il flusso dei pensieri disperdendoli e riaggregandoli in maniera del tutto casuale.
Il paesaggio è stupefacente, colori violenti e un contrasto brutale tra luce e ombra;, la struttura rappresenta l’emblema dei progetti nati con le migliori intenzioni e subito negletti, allorché non evolvono rapidamente nella direzione auspicata. Dovrei trattenermi due settimane e credo di essere la sola ospite, per il momento.
E tu non guardarmi così, riconosco l’espressione affettuosamente canzonatoria che mi dedicavi ogni volta in cui incappavo in una cantonata, scambiando lucciole per lanterne: sono già abbastanza contrariata. Come faceva, quella canzone dell’Equipe 84 che secondo me avrebbe dovuto vincere Un disco per l’estate, nel ‘74? Era “Mercante senza fiori”, un titolo poeticamente enigmatico. Diceva “…strade senza tempo, la tua voce ormai nel vento…”. Ecco, molto adeguato. Perché io la sento, la tua voce, non l’ho scordata. Della tua fisionomia rammento alla perfezione molti dettagli, mentre fatico a mettere a fuoco l’insieme, invece l’odore non lo trovo più e questa mancanza mi tormenta.
Ho dormito tutta la notte un sonno lieve, distratto dal rumore continuo della risacca, onde respinte fragorosamente dagli scogli che nel moto a ritroso si scontrano con quelle che avanzano. Un giro di basso tirato un po’ troppo per le lunghe che a un certo punto ha indotto un abbandono fiducioso e stranamente riposante.
Spalanco le imposte bianche – c’è troppo bianco, da queste parti – e insieme a una bella luce schietta entra l’aroma inconfondibile del caffè appena fatto. Dunque non sono l’unica occupante di questo avamposto sperduto che contiene un’indecifrabile attesa, magari il nemico giungerà presto dal mare e se non comparirà mai dovremo per forza inventarcene uno, ma almeno non dovrò farlo da sola.
Quando esco di casa con l’intenzione di percorrere a piedi un tratto di lungomare e fermarmi in uno dei tanti lidi tra le scogliere, noto un’altra auto parcheggiata accanto alla mia.
Nessun segno di altre presenze; l’unico alloggio con le persiane aperte è quello adiacente al mio e ne sta uscendo una coppia proprio in questo momento: ci salutiamo educatamente, scambiandoci brevi occhiate di incuriosito sollievo.
Li osservo mentre se ne vanno, non sono giovani, l’atteggiamento e la postura, più dell’aspetto, li pongono in quell’incerta mezza età che si è allontanata dalla gioventù ma non prende ancora in considerazione la vecchiaia. Si tratta di un limbo di durata variabile e dipendente dal patrimonio genetico e dalla fortuna e ci sto dentro anch’io, anche se i due dimostrano alcuni anni in più. Lui ha il passo deciso ma un poco rigido, il corpo lungo e asciutto sembra plasmato da qualche disciplina sportiva praticata con assiduità e i capelli più grigi che castani sono dritti e ispidi; lei è magrissima e piuttosto alta, gambe corte (o busto lungo, dipende dai punti di vista da cui si considera la sproporzione), pelle grinzosa e capelli di un biondo fasullo. Sarà inevitabile incontrarli di nuovo, dato che sembrano gli unici altri vacanzieri in questo luogo di feroce bellezza che pare finto e inspiegabilmente dissestato, un vecchio set cinematografico che nessuno si è curato di smontare.
E infatti, poco prima di mezzogiorno, ecco che si infilano in uno dei varchi del muretto e sbucano sulla spiaggia che ho scelto per oggi. Sembra una delle più raccolte; a riva, la rena del colore del talco traspare dall’acqua chiara, ma verso il largo il mare esibisce varie sfumature smeraldine. Difficile ignorarsi, forse mi toccherà sostenere una conversazione e non so se ne ho voglia. In realtà, dopo un saluto cordiale si piazzano discretamente all’altra estremità della battigia.
Tuttavia, forse è vero che gli esseri umani tendono all’aggregazione, persino quelli poco socievoli come me, perché nel tardo pomeriggio ognuno di noi ha acquisito le informazioni fondamentali sugli altri: nome, città di residenza, professione (siamo tutti ancora produttivi, dunque non ancora vecchi). Da parte mia non c’è un reale interesse in queste chiacchiere, piuttosto la voglia passeggera di riempire uno spazio altrimenti vuoto. Il forte accento emiliano, che conferma la loro provenienza, ha un suono carezzevole, un ritmo che accelera e rallenta con delicatezza e mi consente di non badare troppo al contenuto dei discorsi.
Mi trovo qui da una settimana e, salvo eventi imprevedibilmente sorprendenti, credo che la mia simbolica collezione di farfalle quest’anno non si arricchirà di un nuovo esemplare. A parte i miei amabili vicini di casa, ai quali non se ne sono aggiunti altri, sulle spiaggette di questo lungo tratto di costa tutta uguale ho contato soltanto poche giovani coppie o famiglie, sempre di passaggio.
Mi sono spinta verso l’interno vagando per campagne brulle e disabitate, terra color ruggine percorsa da crepe di siccità. Ho visto campi di cocomeri protetti da bassi muretti a secco, fichi d’India e arbusti spinosi, gruppetti di pecore incustodite e rustici capanni che potevano essere ricoveri per animali; nient’altro. Strade polverose e vento,
un non luogo con una storia ignota.
Però, dal tetto a terrazza, al crepuscolo ho osservato ammassi sfilacciati di nubi rosate svanire su uno sfondo striato di cremisi e arancio, mentre il mare custodiva la memoria dell’ultima luce spiovente.
Poiché nella ricerca dell’isola per il rito estivo seguo l’istinto, mi domando quale prospettiva ingannevole mi abbia attirata in un posto dove il sogno di qualcuno è sfumato perché qualcosa, in un passato più o meno recente, deve essere andato storto. A parte l’evidente assonanza con la mia storia personale.
Allora, non mi resta che dedicarmi allo studio antropologico degli unici due tipi umani che costituiscono un campione costante e certo, ovvero i miei vicini.
Non ci siamo mai dati appuntamento ma abbiamo orari assai simili; tuttavia, credo che la ragione per la quale finiamo per rivederci ogni mattina sulla stessa spiaggia, per lo più diversa da quella del giorno precedente, sia di altra natura: la selvatichezza primordiale e l’orgoglioso isolamento di questo posto, insieme alle tracce evidenti di molti abbandoni, ci fanno sentire dei naufraghi, dei sopravvissuti a qualche disastro che cercano il conforto e la compagnia degli altri. Spesso ci si considera fuggiaschi senza aver compreso da cosa si vorrebbe scappare, è solo uno dei tanti equivoci che ti portano dritto da un bravo analista.
Lui parla sempre volentieri e di qualsiasi cosa, sistema le parole con gesti ampi e una mimica facciale accentuata e un poco buffa che si addice alla faccia simpatica da ragazzo invecchiato, occhi chiari intrappolati in una raggiera di rughe. Satura lo spazio circostante anche se tace; quando si allontana si crea un momentaneo vuoto pneumatico e l’atmosfera fatica a ricomporsi.
Mi sono accorta che ogni tanto mi osserva con aperto apprezzamento, senza fare troppi sforzi per nasconderlo. La sua compagna, invece, mi ha soppesata con lo sguardo critico con il quale solo le donne sanno valutare le altre femmine. Istintivamente, ho raddrizzato la schiena e contratto gli addominali: la vanità è un impulso primario che non si accorge del tempo che passa e dell’erosione compiuta sul corpo. Lei è una donna gentile, una bruttina stagionata alla quale l’avvicinarsi di una vecchiaia, anche un poco precoce, concede una serena disinvoltura che in gioventù non deve mai avere posseduto.
Non riesco a inquadrare la dinamica di questa coppia: tra i due c’è una confidenza antica che non produce gesti di tenerezza, nonostante lui sembri piuttosto espansivo; potrebbero essere insieme da tanto di quel tempo da averli dimenticati. Anche i discorsi non li accomunano, ognuno parla per sé, senza che emergano segnali di conflittualità.
Oggi è San Lorenzo e lui mi ha invitata a cena da loro.
“Cucino io, grigliata sul terrazzo e conta delle stelle cadenti. Sugli eventuali desideri, però, massimo riserbo”, ha dichiarato consegnandomi un sorriso sfacciato come una carezza inattesa. Lei se ne è accorta e ha distolto lo sguardo.
Quale che sia il rapporto tra i due, mi convinco che poggi su di un formidabile equivoco e lui pare esserne ignaro, oppure se ne frega.
Stasera c’è una brezza leggera e fresca che arriva dal mare; l’acqua è uno specchio quieto, una sottile coltre di nubi smorza il chiarore lunare.
“Ho dovuto fare un mucchio di strada per trovare pesce e verdure ma ne valeva la pena, dico bene?” afferma lui, soddisfatto e dobbiamo senz’altro dargli ragione.
Maneggia con destrezza le pietanze sulla pietra rovente, sorride, rievoca gli anni nella squadra di pallavolo, i campionati regionali e la grande occasione mancata, ci versa da bere, è la seconda volta che mi sfiora una spalla con un tocco innocentemente casuale, delicato e morbido.
Lei ha un modo abbastanza bizzarro e certo inelegante di mangiare: invece di alzare la forchetta con il boccone, porta la bocca verso di essa in un gesto che la fa rassomigliare a un grosso erbivoro nell’atto di brucare.
Ride sovente e il più delle volte a sproposito, una risatina breve e agghiacciante come uno squittio in una cantina buia. Rivela il suo imbarazzo ravviando di continuo i capelli corti con un passaggio furtivo della mano, accavallando e scavallando le gambe ossute con studiato sussiego. Tiene in grembo un leggero golfino di cui cincischia una manica ed è un gesto compulsivo e demente che dapprima mi disturba, poi mi muove a compassione perché in questa donna percepisco qualcosa di profondamente guasto, una sofferenza che, proprio come i miei pazienti, non è in grado di spiegare.
Scie luminose disegnano geometrie imperfette nel cielo scuro: le stelle sanno morire con impareggiabile buon gusto.
“Io me ne vado a dormire”, dice lei interrompendo un discorso che non portava da nessuna parte ma ci girava attorno, avvolgendoci in una serica ragnatela. Ci tira addosso la sua noia con uno sbadiglio ostentatamente infastidito, ma non si muove.
Lui solleva il calice sorridendole attraverso l’oro torbido di un bianco fermo che appesantisce le membra e induce alla divagazione.
“Allora, buonanotte”.
Lei si alza con uno scatto goffo, il golfino cade, lo calpesta, lo raccoglie e se ne va un po’ troppo in fretta.
“Ti va di fare due passi sul lungomare?”
Testa leggera, gambe pesanti: la combinazione ideale per uscire a passeggiare di notte sulla spiaggia insieme a un tizio che conosco a malapena e che mi ha guardata, per tutta la sera, come se fossimo l’ultima donna e l’ultimo uomo rimasti a rappresentare una specie che rischia l’estinzione. Invece, è il momento delle rivelazioni.
“Non so cosa tu abbia immaginato, ma io e lei siamo amici dalle scuole medie ed è sempre stata fragile e complicata. Ha anche avuto una buona dose di sfortuna e…di avventatezza, diciamo. Le faccio compagnia quando non se la passa tanto bene, anche se non viviamo da tempo nella stessa città”.
“E sei convinto che questo le basti, che da te non si aspetti nient’altro?”
Esita a lungo, prima di rispondere.
“Non ha altri che me, ma sono sempre stato molto chiaro sulla natura del mio affetto per lei”.
Fa una rapida digressione sulla gioventù trascorsa nella bassa reggiana, dove in certe estati la terra riarsa si crepava esattamente come questa e i ragazzini saltavano le fenditure a piedi uniti, scendendo alla fiuma a pescare pesci gatto con i nonni.
“Vengo dallo stesso paese della ladra che con i corpi dei derubati ci faceva il sapone, dopo averli uccisi”, precisa con un orgoglio fanciullesco che mi fa scappare da ridere; poi racconta di un matrimonio finito malissimo, di una ex moglie con la quale non scambia neanche gli auguri di Natale e di un figlio, già trentenne e sentimentalmente imbranato, con cui va molto d’accordo.
“Dopo il divorzio sono salito in Appennino e non ne sono più sceso. Ho rilevato la gestione del bar della stazione, faccio caffè e guardo i treni che passano. E tu, veterinaria milanese, come sei finita tanto in alto?”
A un certo punto, a Milano non c’era più nessuno per cui volessi rimanere”.
Attende un seguito, ma non lo avrà. Con uno scarto laterale, gli spiego la mia infanzia in caserma e il disagio che mi impediva di invitare a casa le amicizie del liceo.
Anche le telefonate passavano attraverso il centralino, rispondeva un gentile appuntato ed era imbarazzante.
Torniamo verso casa separati da considerazioni inespresse ma sicuramente divergenti, lo saluto sbrigativamente ignorando la sua titubanza.
Abbiamo continuato a trascorrere parte delle giornate insieme, lui nuota volentieri e spesso ci spingiamo verso qualche scoglio al largo; lei preferisce prendere il sole, a volte ci dimentichiamo della sua presenza.
È il 16 di agosto, non avendo un televisore al residence mi perderò il Palio di Siena, spettacolo che mi atterrisce e al quale, tuttavia, non so rinunciare, per quanto trovi terribilmente noiosa tutta la faccenda della mossa e del canapo. Domani mattina mi dirigerò al porto, un traghetto mi condurrà a diversi chilometri di distanza da casa ma farò una sosta a Milano, dai miei ci sarà anche mio fratello con la sua famiglia e trascorreremo alcuni giorni insieme. La casa di via Bertelli era in affitto, ora che papà è in pensione i miei stanno al Corvetto in un appartamento di dimensioni ridotte, dunque andrò in albergo e mi sentirò del tutto straniera nella mia città.
In quest’ultimo giorno di mare torno allo stretto lembo sabbioso da cui ho iniziato l’esplorazione della litoranea.
Lo scorgo arrivare a metà mattina ed è solo; riferisce che la sua amica ha preso l’auto e percorrerà una trentina di chilometri per raggiungere un paese dove intende dedicare l’ultimo giorno agli acquisti. Partiranno anche loro domani, con un traghetto di una compagnia differente dalla mia e un’altra destinazione.
Tira il solito vento spavaldo che nel pomeriggio rinforzerà, per ora allevia gradevolmente la calura. Ci sediamo sul bagnasciuga, la coda delle onde lambisce le natiche e, ritirandosi, scava un solco nella sabbia attorno: è un piccolo smottamento privo di allarme che fa un solletico lieve.
Ci raccontiamo aneddoti sulla vita in certi borghi in montagna dove i turisti capitano solo quando sbagliano strada, piccole comunità, chiuse ma solidali alla stregua di famiglie allargate, dei modi in cui impieghiamo il poco tempo libero, delle giornate che in montagna sono corte anche d’estate.
All’ora di pranzo ci ritiriamo nell’ombra umida degli scogli dividendoci pane, pomodori e frutta. Non è più il momento delle parole, rimpiazzate da una vicinanza complice, un necessario scambio di silenzi.
Una nuvoletta bianca (un cucciolo di nuvola, penso scioccamente) si sposta lentissima nel cielo blu, sospinta da qualche vento in quota che ne plasma di continuo i contorni, modificando impercettibilmente la forma. Le cose cambiano e non siamo sempre pronti ad adeguarci.
Mi piacerebbe acchiappare quella nuvola soffice, annusarla e tenerla tra le mani per scoprire di che materia è fatta. So bene qual è la sua composizione, però la conoscenza a cui aspiro non riguarda la mente bensì i sensi, è una connessione istintiva e immediata, la pura comprensione tattile e olfattiva.
Sediamo l’uno accanto all’altra, schiena e testa appoggiate alla pietra liscia e fresca, lui ha gli occhi chiusi. È talmente vicino che posso percepire il calore della sua pelle, il respiro sommesso e regolare, la fragranza delicatamente agrumata della lozione solare.
Quest’uomo sembra intagliato in un solido legno senza troppa cura per i dettagli; eppure, il risultato non è di approssimazione, conduce piuttosto all’essenzialità: c’è tutto ciò che serve e solo quello.
Vorrei conoscere meno cose di lui, farmi bastare la voglia del suo corpo; mi piacerebbe sentire un desiderio semplice e brutale, ma è troppo tardi, ci siamo spinti troppo oltre.
Lui non è certo adatto alla mia battuta di caccia estiva, non emette alcun brillio allettante e ingannevole e non voglio infilzarlo con lo spillo su un metaforico pannello di sughero.
Scorza di limone, timo, tabacco dolce e un’indefinibile nota salata. Eccolo, il tuo odore, non lo avevo scordato ma solo nascosto perché non lo avrei sopportato. Non posso continuare a portarmi dietro questa tristezza greve, amore mio.
Ci siamo risvegliati a pomeriggio inoltrato con il collo storto e le ossa rotte. Nel sonno siamo scivolati scompostamente uno addosso all’altra, mescolando sudore e antisolare. Siamo impacciati per l’involontaria intimità e anche un poco scontenti per il tempo sprecato dormendo.
Declino l’invito a chiudere la vacanza con un’ultima cena, avremo tempo per salutarci domani mattina. Insiste per avere il mio numero di telefono; cerco di prendere tempo.
“Per farne che?”
“Quello che si fa di solito con i numeri di telefono, per chiamarti”
“Siamo troppo lontani”
“Possiamo sempre avvicinarci, un giorno o l’altro”.
Cedo a quella che mi sembra una logica inoppugnabile. Tanto, sono convinta che i nostri percorsi si dividano qui, senza mai essersi davvero affiancati.
Stamattina me ne sono andata all’alba girando le spalle a questo posto strambo, della cui decadenza non ho trovato le ragioni, evitando di voltarmi per non portarmi dietro la delusione dell’uomo che osservava il mio commiato scortese da una finestra.
È stato un viaggio di rientro lungo e faticoso; dopo tanto isolamento e di immersione in una rude bellezza, sul traghetto la confusione chiassosa della folla in ciabatte di gomma e cappellino di tela mi è sembrata insopportabile.
Non vedevo Milano da oltre un decennio e naturalmente il paesaggio cittadino è in parte mutato, eppure la riconoscerò sempre, è la mia città ed è disseminata di tracce indelebili di una parte fondamentale della mia esistenza. Mi riapproprio di un linguaggio che più che ai luoghi è legato ai sentimenti, ed è un ritorno a casa inatteso e sorprendente .
Una sera sono andata anche all’Idroscalo, la Punta dell’Est resiste ma i gerbidi attorno sono scomparsi, hanno costruito dappertutto. Sono sparite anche le lucciole, nessun abbaglio può più mutarsi in lanterna.
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Le vacanze sono terminate, è ora di tornare alle montagne in cui ho trovato rifugio e ho un nuovo dubbio da risolvere: non so se ho ancora bisogno di un riparo, di solitudine, di rapporti cordialmente superficiali che presuppongono reticenze sistematiche, mantenendo distanze non superabili.
Non credo di essere più capace o desiderosa di un sentimento tanto forte da prendere e dare tutto, ma forse potrei accoglierne uno con meno pretese, prezioso ancorché non indispensabile.
Chissà se la notte fa già freddo anche sull’Appennino emiliano, ma ciò che vorrei veramente sapere è come potrebbe essere un suo abbraccio, e perché diavolo non ho voluto il suo numero di telefono.
Oggi ho ripreso il lavoro, sono stata fuori sotto una pioggia fredda e tediosa ma rientro a casa contenta, corroborata da un inedito senso di compiutezza: sono riuscita a guarire un vecchio pony da una colica letale e ho visto la gioia e la gratitudine negli occhi di una bambina che ancora non sa che non sarà così per tutta la vita, non arriverà sempre qualcuno a salvarti, ma oggi è andata proprio in questo modo.
Salgo la scala scricchiolante, Gerda stasera non c’è, il lunedì gioca a carte con alcune amiche. Apro la porta e mi accoglie il silenzio tiepido delle stanze che in questi anni ho considerato casa, ma è ancora così?
Tra pochi mesi terminerà un secolo, comincerà addirittura un altro millennio. Potrebbe essere realmente l’inizio di una nuova era e magari basta crederci, deviare da un tracciato sicuro e camminare verso un’incognita per determinarne la grandezza.
Suona il telefono, un trillo allegro che esige una risposta, adesso, subito.
“…it won’t be long another day
We gonna have a good time
And no one’s gonna take that time away
you can stay as long as you like
so close your eyes, you can close your eyes, it’s alright…”
(“You can close your eyes”, James Taylor)
…Non ci vorrà molto prima di un altro giorno
Ci divertiremo e nessuno ci porterà via quel tempo
Puoi rimanere finché lo vorrai
Quindi chiudi gli occhi
Puoi chiudere gli occhi, va tutto bene…